Franco Basaglia morì nel 1980, a soli 56 anni, la rivoluzionaria legge 180 nota come legge Basaglia, frutto di un compromesso con la DC, era uscita nel 1978, ma non è mai stata completamente attuata, come un’autostrada mai finita. Il 1980 è anche l’anno in cui viene adottato il Dsm III, la terza versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che per molti è un regalo alle industrie degli psicofarmaci e una resa di fronte alla crescente medicalizzazione della società, dato che dilata a tal punto lo spettro delle patologie psichiche da lasciare ben poco spazio alla “normalità. Il 1980 è l’anno in cui iniziai a lavorare all’Ospedale Psichiatrico di San Salvi, ero un giovane entusiasta ed idealista. Non fu un percorso facile. Perché le proposte di noi basagliani erano considerate utopistiche e destabilizzanti, la maggior parte dei medici era contraria perchè difendeva il sistema vigente e temeva per la propria attività privata. Vigeva la regola del medico bifronte, muto e frettoloso nell’attività pubblica, simpatico e affettuoso nello studio privato. Era anche l’era della psicoanalisi e per entrare nella scuola di specializzazione in psichiatria dovevi sottoporti ad una costosissima terapia dalla psicoanalista freudiana indicata dal primario, che mai era entrata in un manicomio, almeno così succedeva a Firenze.
Donne c’è l’arrotino! era un grido che ancora riecheggiava in quegli anni nelle strade, prima dell’usa e getta. Negli anni quaranta, il dr. Walter Jackson Freeman, un arrotacervelli statunitense “girava a bordo di un suo camioncino, soprannominato “lobotomobile”, e in dieci minuti per soli 25 dollari recideva le fibre nervose di chiunque. Lo faceva con un punteruolo da ghiaccio entrando dalle cavità oculari dei pazienti, usando quella che chiamava tecnica dello “scalpello e del martello”, prometteva cure rapide ed efficaci su “bambini agitati e iperattivi, casalinghe che non volevano fare il bucato, agitati, omosessuali” che così diventavano “moralmente sani”. Freeman girava gli Stati Uniti spiegando le meraviglie dell’operazione, che praticava ovunque, in sala operatoria come nel salotto di casa dei pazienti.” Scrive Valentina Furlanetto, giornalista di Radio24 – Il Sole 24 Ore e scrittrice, nel libro Cento giorni che non torno: Storie di pazzia, di ribellione e di libertà.
Un libro molto interessante, che esce nel centenario della nascita di Franco Basaglia, dove si parla di psichiatria e di antipsichiatria, prima e dopo di lui: “La follia è una condizione umana”, diceva Basaglia, che trattava il paziente nella sua specificità, ascoltandolo, prendendo in considerazione la sua sofferenza non negandola, ma senza inserirlo necessariamente in una categoria diagnostica” […] “”La grande intuizione di Basaglia fu quella di iniziare a pensare al paziente non solo come a un “pazzo”, ma come a una persona, che ha bisogno di cure ma anche di cibo, di una casa, di un lavoro, degli affetti. C’è un grande equivoco che si sente spesso ripetere quando si sente parlare di Basaglia ed è che fosse un antipsichiatra. Non lo era, Basaglia non nega la malattia, ma non la riconduce ad un ambito solo biologico”. Non condivido quello che qui scrive Valentina Furlanetto. Essere antipsichiatra, non vuol dire negare la malattia mentale, che è la sciocca tesi dei detrattori di Basaglia, ma vuol dire porsi in modo netto contro la psichiatria classista dei ricchi e dei poveri, contro la psichiatria businnes, contro i pietosi amici dei malati mentali alla Tobino, contro l’impasticcamento seriale dei pazienti perchè manca il tempo per l’ascolto.
La storia di Basaglia in questo libro, si intreccia con quella umana e clinica di Rosa la nonna della scrittrice. Entrambi nacquero nel 1924, entrambi veneti, oggi centenari. Rosa quando è ancora giovane viene investita da un’auto. Da questo momento inizia la sua battaglia con le crisi epilettiche e con la malattia mentale. Il primo ricovero lo ebbe al manicomio Sant’Artemio di Treviso nel 1958: a 36 anni aveva tutti i capelli bianchi, a causa dei cicli di elettroshock senza anestesia.” La cura geniale, autarchica, economica, “italica”. […] l’“attimo elettrico” che produce l’“urto al cervello”, dicevano le fanfare fasciste. Ai nostri giorni l’elettroshock è sceso in strada: “Quando nel 2018 l’allora ministro dell’Interno Salvini e il capo della Polizia Gabrielli proposero di dotare le forze dell’ordine di pistola elettrica, il taser, Piero Cipriano scrisse su “il manifesto” che non era altro che uno sdoganare un “elettroshock da strada” per “migranti, tossicomani, persone con disturbi psichici, e altri dannati della terra”.
L’era dell’impasticcamento
Rosa nella vecchiaia “camminava lentissima come la lumaca di Pinocchio”, a causa del parkinsonismo indotto dai farmaci neurolettici che la quietavano. Basta aggiungere un po’ di dopamina, di serotonina, come un po’ di sale al risotto, per risolvere il problema della psicosi e della depressione, un messaggio facile da capire, facile da comunicare, perfetto per vendere: un gran successo di marketing, che però poggia su basi scientifiche molto, ma molto fragili, che non prende in considerazione gli effetti collaterali che possono essere anche rivelanti e molto invalidanti. D’altronde “La Food and Drug Administration, l’agenzia americana del farmaco, e gli enti regolatori europei considerano efficace un farmaco se due sperimentazioni hanno dato esiti positivi, anche se ci sono altri 98 studi con esiti negativi. Così gli studi negativi non vengono considerati e viene sovrastimata l’efficacia del farmaco che a volte è scarsa e altre addirittura nulla. Negli Stati Uniti, dove dal 1997 è possibile reclamizzare i farmaci, la popolazione è martellata da campagne pubblicitarie sugli psicofarmaci anche molto aggressive”.
“ Sono cento giorni che non torno”, ripeteva Rosa, che soltanto con il pensiero o con i libri poteva andare altrove.” Rosa provò sulla sua pelle l’impatto del manicomio di mattoni, e di quello chimico della psichiatria organicista che pensava al cervello “come a un organo che bastava correggere (per via elettrica, chirurgica e ora chimica).”
Il terricomio
“Oggi il manicomio non è più costituito da muri e sbarre, ma è diventato astratto, invisibile, si è trasferito direttamente nella testa, nelle vie neurotrasmettitoriali che regolano i pensieri. Un manicomio meno appariscente, più discreto, illusoriamente migliore perché asettico e moderno. […] Non esiste più il manicomio, ma abbiamo inventato il terricomio – dice lo psichiatra Piero Cipriano – dove si replicano le stesse dinamiche perché si è instaurata una modalità circolare per molte persone malate: quando sono in fase acuta di crisi vengono ricoverate nel reparto dell’ospedale, l’Spdc, ma qui non possono stare più di due-quattro settimane.” Dopo di che i ricchi vanno in case di cura privata, mentre chi non se lo può permettere si arrangia, secondo il mantra della privatizzazione della sanità. ““Che significato può avere costruire una nuova ideologia scientifica in campo psichiatrico, se, esaminando la malattia, si continua a cozzare contro il carattere classista della scienza che dovrebbe studiarla e guarirla?”” scriveva profeticamente Basaglia.
Psichiatria di genere
Non è che ci finissero solo le donne nei manicomi ma l’essere donna indubbiamente facilitava l’entrata e la permanenza: “Nell’elenco delle motivazioni di ricovero delle cartelle cliniche rientrano: “non aiuta nelle faccende domestiche”, “instabilità di carattere”, “erotomania”, “discinta”, “traditrice”, “esce di casa a ogni ora”, “si rifiuta di dormire con il marito”, “non vuole avere figli”, “non acconsente a sposarsi”, “dà pubblico scandalo”, “orfana”, “rapporti sessuali occasionali”, “stravagante”, “ruba”, “idee originali”. E poi in assoluto il mio preferito: “ballava e cantava per strada e in casa”.”
““Sono nata il ventuno a primavera/ma non sapevo che nascere folle,/aprire le zolle/potesse scatenar tempesta”, scrive Alda Merini che il manicomio lo ha vissuto.” Non sempre era la miseria, la fragilità culturale, l’analfabetismo a determinare l’internamento: “Ma c’erano anche delle eccezioni. Camilla Restellini, nata nel 1910, era una donna istruita e politicamente impegnata. Camilla credeva nel socialismo, nell’antifascismo, nell’anarchia e nel pacifismo, ma lei e il marito Giovanni vennero internati in manicomio. E vennero rinchiusi proprio per le loro idee politiche. ” Si era nel 1947, ma l’ideologia fascista, e il pensiero reazionario cattolico la faceva sempre da padrone anche in psichiatria. Adamo Mario Fiamberti, già membro autorevole del Partito fascista, fu direttore dei manicomi di Sondrio, Vervelli e Varese dove restò dal 1937 al 1964. Gran fautore della cosiddetta “ tempesta vascolare” e della lobotomia seriale, leucotomizzò 600 pazienti, di questi più di cento morirono durante o subito dopo l’operazione, gli altri che sopravvissero furono ridotti allo stato larvale: “venivano dimessi dal suo ospedale quando riuscivano a fare il saluto fascista.”
La prima tappa
“ Se volete vedere una realtà dove si elabora un sapere pratico, andate a Gorizia” scriveva Sartre, alludendo a quel piccolo ospedale psichiatrico di cui Basaglia fu direttore e che divenne il luogo psichiatrico più famoso d’Ialia e d’Europa. “A Gorizia – racconterà poi Basaglia nelle conferenze brasiliane – c’era un ospedale di cinquecento letti, diretto in maniera del tutto tradizionale, dove erano usati elettroshock e insulina, un ospedale dominato in primo luogo dalla miseria, la stessa che incontriamo in tutti i manicomi. Nel momento in cui vi entrammo dicemmo no, un no alla psichiatria, ma soprattutto un no alla miseria”” “
Per le altre tappe della vita di Basaglia e di Rosa e per tanto altro, vi consiglio di leggere il bel libro di Valentina Furlanetto.
Valentina Furlanetto, Cento giorni che non torno: Storie di pazzia, di ribellione e di libertà, Laterza, 2024, Bari- p.288, euro.19
Gian Luca Garetti
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I miei complimenti a Gian Luca per la sincerità e competenza dell’articolo, terribile ma chiaro su un certo tipo di “medicina”.