Dahomey è un documentario del 2024 della regista Mati Diop che affronta, con straordinaria lucidità, il tema della eccezionale restituzione di oggetti africani conservati in un museo europeo al governo del Benin. Il lungometraggio, premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, è stato recentemente presentato nella rassegna “Festival dei Popoli” a Firenze, alla presenza di un notevole numero di spettatori. La regista affronta il tema della “repatriation”, del valore della restituzione (quanto riparativa?) attraverso un racconto che affronta nodi ancora inestricati del postcolonialismo. Mati Diop, francese con padre di origini senegalesi, è impegnata, con la regia dei suoi lavori, nella ricerca di chiavi culturali utili ad affrontare le tematiche di identità, memoria, danni e perdite frutto del colonialismo. Ma attraverso le sue immagini impone anche un “altrove” del quale l’occidente sembra avvertire presenza solo come contesto folkloristico, esotico, campo di studio e di analisi, confermando il proprio sostanziale sguardo colonialista. La regista, nata e vissuta a Parigi, non ha mai interrotto i rapporti con l’Africa, che convive dentro di lei con la sua parte francese, riuscendo a restituire attraverso le sue opere un dualismo complementare, spesso conflittuale e mai completamente pacificato.
La storia del lungometraggio è quella di 26 oggetti del tesoro reale di Abomey, trafugate nel 1892 dal comandante delle forze francesi Alfred Dodds dal palazzo del re Béhanzin, incendiato durante la campagna di conquista del Dahomey. Gli oggetti, conservati a Parigi prima al Museo d’Ethnographie du Trocadéro, poi al Museo de l’Homme e infine nel Museo Quai Branly-Jacques Chirac, sono stati incredibilmente rimpatriati nel 2021 verso quella che ora è la Repubblica del Benin, un tempo Regno di Dahomey. Nel novembre 2021, le 26 opere, tra statue Fon, oggetti Yoruba, tessuti e troni del palazzo, sono partite da Parigi per arrivare a Cotonou. Per questa operazione, voluta e richiesta fin dal 2016 dal Benin, il governo francese ha dovuto mettere in atto manovre legislative per superare le norme che impediscono l’esportazione di beni del patrimonio nazionale. Il Presidente della Repubblica francese in persona si è mosso per rendere possibile questa repatriation. Fin qui potremmo pensare a una svolta positiva nella direzione della riparazione postcoloniale, e in parte lo è; tuttavia i processi di mediazione come questo sono molto più complessi di come appaiono, e prevedono, o almeno dovrebbero, processi di confronto culturale e reciproco ascolto degli attori coinvolti.
Ed è esattamente ciò che la regista Diop mette in luce nel documentario, quando dà voce ai vari soggetti coinvolti nel processo, ciascuno con modalità originali.
La prima voce, sostanzialmente muta, è quella francese, che si esprime attraverso immagini di tecniche e asettiche operazioni di preparazione al viaggio dei reperti da rimpatriare. Lunghe e lente riprese raccontano la grande professionalità degli operatori, la precisione di gesti e di procedure tese alla cura conservativa delle opere.
La seconda voce appartiene alle statue che stanno per essere rimpatriate. Si tratta di tre statue a grandezza d’uomo, personaggi ibridi metà uomo e metà animale che rappresentano i simboli dei re del Dahomey: uomo-leone per il Re Glelè, uomo-uccello per il Re Ghezo, uomo-squalo per il re Behanzin. Il regno del Dahomey è uno degli storici regni africani, con radici nel ‘600 e una storia lunga e complicata, coinvolto nel commercio degli schiavi e legato a un complesso tradizionale fortemente identitario. Tra le altre cose, il regno aveva istituito un corpo militare di donne, parificato militarmente e socialmente a quello maschile, noto come il corpo delle amazzoni. Le varie campagne di conquista da parte europea, e in particolare le campagne di Dodds per la Francia nel finale del XIX secolo, hanno eliminato il regno e di conseguenza eradicato la forma identitaria che rappresentava.
Le statue esprimono con una voce soprannaturale il loro disagio, dentro le vetrine a grandi cristalli, ben illuminate, del museo francese, del museo dei vincenti, come fossero vittime di rapimento, bottino di guerra, esposti lontano dalla loro terra, esibiti come opere d’arte che nessuno capisce nei loro significati più profondi. Quella a cui è stato assegnato il numero 26 si chiede il perchè, che senso ha, come mai viene indicata non con il suo nome ma con un numero per lei privo di senso. Le statue stanno comunque partendo, affronteranno il viaggio da una paese a un altro che è finalmente casa, e si interrogano su quello che le aspetta. Riusciranno a esprimere di nuovo il loro senso originario? Intanto vivono e subiscono la cura che gli operatori mettono in atto per loro, l’immobilizzazione contro gli urti, il buio delle grandi casse nelle quali vengono riposte, la lettura delle schede conservative sulla presenza di lacune, distacchi, tracce di danneggiamenti. Tutte operazioni necessarie per un trasporto di reperti museali, tuttavia il montaggio delle immagini ne risalta il carattere di freddezza impersonale.
Le opere arrivano a Cotonou dove vengono prese in carico da una struttura che può assicurare le stesse condizioni microclimatiche di temperatura e umidità di cui godevano in Francia. Il disimballaggio in Africa finisce per apparire spersonalizzante come lo era stato l’imballaggio in terra francese. Le statue e gli altri oggetti sono dunque accolti nella loro terra d’origine alle stesse condizioni ambientali (ben più difficili da ottenere, visto il clima del Benin) dei loro ultimi oltre cent’anni fuori patria, nell’attesa del loro ulteriore e definitivo trasferimento nel futuro museo di Abomey, secondo un progetto sostenuto dall’Agenzia Francese per lo Sviluppo.
Le statue, finalmente a casa, parlano, mostrando di non aver ancora trovato il proprio posto. Riconoscono gli odori di casa, dei fiori e dell’aria ma si ritrovano ancora chiusi in teche di cristallo, sotto gli sguardi di persone che, depredate un tempo dei loro oggetti e dei loro simboli, hanno dovuto costruire nuove identità sotto l’influenza dei colonizzatori. L’anima delle statue può essere libera finalmente ma la realtà che trovano è tanto diversa da quella che hanno lasciato.
La macchina da presa ci racconta poi le cerimonie ufficiali di riconsegna da parte delle autorità, che certamente testimonia una vittoria e un riconoscimento delle istanze del governo di Benin.
La terza voce è quella del vivacissimo e acceso dibattito degli studenti all’università di Abomey-Calavi sul rientro delle opere. Qui il ritmo narrativo aumenta: le immagini lente del viaggio, delle procedure tecniche e dei festeggiamenti da parte delle autorità, lasciano il posto a inquadrature di ragazzi appassionati che esprimono opinioni, sentimenti e sensazioni rispetto a un evento che ai loro occhi appare per qualche verso un passo decisivo verso la riappropriazione del proprio passato, per molti un gesto insufficiente e paternalistico, o un’operazione strumentale francese di distensione dei rapporti critici attuali con l’Africa. Ragazzi con felpe occidentali, globalizzati e connessi, che si sentono offesi da una restituzione di 26 su oltre 7000 oggetti trafugati ai loro antenati, ragazzi consapevoli che una lunga politica coloniale li ha privati degli strumenti per interpretare le loro tradizioni culturali, ragazzi coscienti che per lo stesso dibattito che stanno facendo usano la lingua francese, in quanto incapaci di essere altrettanto espressivi nelle loro lingue originali.
Dahomey apre squarci di luce sul sempre più pressante problema della decolonizzazione, spazzando la polvere dell’ipocrisia occidentale, smascherando le patetiche operazioni di make-up che spesso accompagnano i temi di repatriation. La lunga mano dei colonizzatori occidentali finisce per imporre le sue linee guida anche sui processi riparativi, laddove la restituzione è legata alla riproduzione ambientale delle condizioni espositive dei musei di nostra concezione. Sembra proprio che il processo stesso di restituzione, quando avviene, non implichi un vero passaggio di proprietà intellettuale, come forse garantirebbe maggiormente una restituzione tout-court, senza condizioni.
Altra chiave di lettura fornita dalla regista con l’espediente delle statue che “parlano” ci spinge alla riflessione su uno spostamento (necessario) del nostro punto di vista occidentale, teso a elevare gli oggetti conservati nei musei etnografici al ruolo di “opere d’arte”, “manufatti artistici”, svuotando di fatto l’essenza di quell’oggetto, il suo significato spesso lontano dal nostro giudizio estetico.
Gli oggetti parlano con quella loro voce, e sono in grado di gridare la loro protesta, dovremmo solo preparare orecchi disposti a sentirla.
Maria Gloria Roselli
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