Che dire? Colgo con favore il fatto che sono arrivato a questo libro grazie ai social, che tanto mi, e ci, provocano fatica e creano difficoltà. Sì perché arrivandomi “Il dispaccio di Tersite”, a cura di Tersite Rossi, collettivo di scrittura che mette al centro del proprio lavoro il potere e i suoi abusi, sono venuto a sapere che c’è un interessante festival, “Dora Nera”, che si tiene a Torino e che cerca, e individua, le connessioni tra il noir e le ingiustizie sociali.
Con Il destino non è un finale già scritto abbiamo a che fare con cinque autrici ed autori che attraverso alcune storie, di donne e uomini in carne ed ossa, ci portano dentro a quella realtà con cui abbiamo a che fare quotidianamente. Una realtà permeata di ingiustizie e che, se si vive avvinghiati alla speranza, non può far altro che condurci all’ennesima fregatura. Per non parlare dei sensi di colpa di cui il genere umano è pieno.
Il libro si apre con Gabriella Genisi che ci parla di Barbara e della convivenza con la ‘ndrangheta e le sue leggi non scritte fatte di vendetta e codice d’onore, e del suo essere moglie di un capobastone di un pericolosissimo clan della criminalità organizzata. Pagine che ci trasmettono non solo l’anelito di libertà, ma ci mettono anche in contatto con quella mentalità mafiosa che considera le donne solo esseri obbligati ad obbedire. Barbara è un simbolo di cosa significa essere donna nella e contro la ‘ndrangheta.
A seguire ci imbattiamo in Marco Nico con “Cammina coi lupi” e il razzismo ormai penetrato nel più profondo della società. In questo caso ci troviamo ad avere che fare con l’Afghanistan e i signori della droga; con il cosiddetto sesso debole e cioè con la condizione femminile che non è altro che asservimento e obbedienza al maschio. L’Afghanistan è rappresentato da Tahira, il personaggio al centro di queste pagine, con il suo rapporto con i lupi e per questo considerata una bambina strega. Lasciando l’Afghanistan e spostandosi al confine, anzi al controllo dei confini, incontriamo Antoine per il quale sparare ad un lupo è la più grande soddisfazione ed il gusto di uccidere è mosso solo dal bisogno di far capire chi comanda. Il suo è il razzismo che si concretizza nei confronti di chi scappa alla ricerca di un’altra, possibile e sostenibile, vita. Un razzismo che si ritrova, oltre che nella figura di Antoine, anche, successivamente, in Gerard, il gendarme che non si accontenta di mettere in fuga gli immigrati ma gli dà la caccia, un vero e proprio suprematista arruolato per la difesa di una “patria a rischio invasione”, in un razzismo che prende forme geografiche attraverso vie di fuga come la “rotta balcanica”. Razzismo e intolleranza, che producono il capro espiatorio. Un capro espiatorio che può essere sia il lupo che gli immigrati.
La realtà prosegue ad essere descritta con Leonardo Palmisano ed “Il sicario tunisino”. Italia, Bari ed il bandito Mazzacani, la Sacra Corona Unita, il quartiere Sammichele, il traffico di esseri umani, la Libia post Gheddafi. Un minestrone? Assolutamente no, anzi tutto aiuta a descrivere la figura del sicario al servizio di politici, giudici, banchieri ecc…
Eccoci al quarto racconto: Valentina Santini con “Santamuerte” ci porta in Messico, dove i 90 minuti non sono quelli di una partita di calcio, ma quelli dello ‘scomparire’ , dell’essere ‘prelevato’; un paese nel quale, al di là di facili stereotipi, sono il dolore e la paura ad essere le caratteristiche che accompagnano il vivere un giorno dopo l’altro. Pagine che ci fanno venire alla mente “La vergine dei sicari”, edito nel ’99, di Fernando Vallejo, certo ambientato in Colombia ma tenendo conto della descrizione della venerazione verso la bambina bianca potrebbe essere il Messico con le fosse comuni, i cartelli dei narcos che regolano l’economia e regalano illusioni anche al più miserabile degli ultimi; lo stato che non ha interesse alcuno a trovare gli scomparsi, vedi i 43 studenti nel 2014; uno stato che è intriso di corruzione, uno stato che è, in realtà, la malavita organizzata. Un paese, non il solo certamente, che o accetti le mazzette o firmi la tua condanna a morte, dove la scelta non esiste. Il Messico con il sogno americano a due passi, e qui ritorna il tema dell’immigrazione e di chi la intraprende.
Il libro si conclude con Aurora Tamigio ed il suo “Né vivo né morto” che evidenzia la questione lavoro, anzi la contraddizione capitale/lavoro. Lo sfruttamento, le morti bianche, ma anche e soprattutto la solidarietà. Finisci di leggere queste pagine e ti vengono in mente gli scomparsi che hai appena letto, ti vengono in mente a tal punto che ti domandi se hai letto di persone in carne ed ossa oppure di fantasmi. Questo libro è l’ulteriore dimostrazione che il noir può essere uno strumento utile per affrontare temi spesso non presi in considerazione, senza bisogno di ricorrere al poliziotto buono e all’investigatore privato.

Edoardo Todaro

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