Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento di Dario Salvetti all’Assemblea cittadina convocata dall’ex GKN al Teatro Puccini di Firenze il 27 ottobre 2025.
Grazie a tutti e a tutte di questa presenza. Quattro anni fa, , nell’ottobre del 2021, abbiamo riempito questo teatro. E già il fatto che una vertenza, dopo essere stata aggredita con mancanza di salario, disoccupazione, stanchezza, logoramento, sia in grado di riempire ancora un teatro, dimostra tante cose ed è una delle ragioni per cui siamo qua.
Ma credo, a nome del collettivo e anche della SOMS, che vorremmo partire stasera dalla priorità, quella con la P maiuscola. Non vogliamo paragonarci a quel dramma, ma capiamo il tipo di manovre che il potere fa contro le resistenze (anche noi in una scala enormemente più piccola abbiamo subito manovre simili): intesta vittorie che non ci sono e traguardi che vanno in direzione esattamente opposta. Così è stato fatto sulla tregua, che pace non è, in Palestina.
La questione palestinese è centrale e deve rimanere centrale in tutte le nostre mobilitazioni.
Per questo la pratica dell’Urlo per Gaza, che abbiamo pensato come Collettivo di fabbrica, anche come pratica di permanenza che sopravvive ai flussi e riflussi naturali di un movimento, continua. E stasera ci tenevamo a partire dicendo che il prossimo Urlo per Gaza è convocato per mercoledì 5 novembre.
Convocare un’assemblea ci è sembrato doveroso quando ci siamo svegliati una mattina con un quotidiano locale che titolava “Caccia ai colpevoli, al vaglio le immagini”. Siccome, a differenza del potere istituzionale, ci tenevamo a fare le cose in fretta, ci sembrava giusto chiudere il prima possibile questa caccia ai colpevoli. E pensavamo si fosse già chiusa in aeroporto, però evidentemente non hanno visto abbastanza bene le immagini in cui rivendicavamo quello che era accaduto.
Eccoci qua. La caccia ai colpevoli, per quanto ci riguarda, è finita: è qua su questo palco, è qua in questo teatro e in tanti altri luoghi che solidarizzano con noi, e che continueranno a solidarizzare.
Siamo qua anche per parlare di repressione, non per farci ipnotizzare dalla repressione. Un compagno mi ha fatto vedere uno di quei grafici che si possono trovare su Google Trend, credo, dove si vede quante volte GKN è stata cercata sui motori di ricerca. C’è il picco del 2021, quando ci hanno chiuso all’improvviso, e non si trova nessun picco uguale se non quello dell’altro giorno con l’azione all’aeroporto.
È tipico di una società malata, anche dal punto di vista dell’informazione, condannare gesti eclatanti e contemporaneamente dare visibilità alle lotte solo quando fanno gesti eclatanti. Una contraddizione che dovrebbero spiegarci loro, perché noi il nostro gesto eclatante lo facciamo tutti i giorni: ogni volta che il presidio attacca alle sei di mattina, ogni volta che abbiamo resistito alla disoccupazione, alla mancanza di salario. Ovviamente per una lotta, per degli attivisti, per delle attiviste, questo tipo di spirale malata – repressione, visibilità, altra repressione – è qualcosa che ti può anche tentare. Si può avere l’impressione che questa si la via per trovare nuova visibilità. Non era questa la ragione dell’azione all’aeroporto. Noi non eravamo alla ricerca di questo tipo di visibilità.
In realtà quell’azione sta perfettamente nel solco della tradizione di questa lotta, della tradizione del movimento operaio, della tradizione della disobbedienza civile di massa internazionale e anche italiana. È nella tradizione dei metalmeccanici, che ricordiamo, lo scorso giugno per il rinnovo del contratto, pochi giorni dopo l’approvazione del DDL, forzano i caselli dell’A1 a Bologna. Anche i lavoratori Ansaldo nell’ottobre 2022 occupavano l’aeroporto. È nella tradizione di questa lotta, perché noi il 9 luglio 2021 abbiamo superato il cancello della fabbrica senza chiederci quale fosse il livello di legalità che praticavamo, ma guidati soltanto dalla legittimità sociale di quello che stavamo facendo.
E abbiamo continuato. Abbiamo continuato con il presidio, abbiamo fatto 12 manifestazioni definite civili e pacifiche, ma che non hanno mai indietreggiato rispetto alla radicalità della messa a disposizione dei nostri corpi a favore di questa lotta. Per questo abbiamo occupato per trenta ore il Consiglio comunale, abbiamo occupato la Torre di San Nicolò. Per questo il corteo del 14 maggio 2024 si concludeva occupando la Regione. E la messa a disposizione dei nostri corpi contro il logoramento è arrivata anche allo sciopero della fame per 13 giorni.
Se questa volta c’è stata una reazione diversa, su questo si deve interrogare loro, non noi. Noi abbiamo iniziato questa lotta da partigiani, usando le terminologie dei partigiani fiorentini e non solo, che continuano ad essere le nostre terminologie: Insorgiamo. Se nella storia inizi una lotta da partigiano e la finisci da bandito, questo non attiene alla tua condotta, attiene ai rapporti di forza che si sono sviluppati attorno a te. E quindi il tentativo di trasformare in un problema di ordine pubblico questa mobilitazione, come tante altre, è qualcosa che dovrebbe preoccupare non tanto noi, ma credo tutte le forze democratiche, progressiste e sindacali di questo Paese. Questo è il punto.
Il tentativo di cucire attorno all’azione dell’aeroporto una narrazione tossica, diversa da tutte le altre narrazioni, forse ci deve interrogare su quello che potenzialmente sta accadendo in questo paese.
Articolo 610 Codice penale: violenza privata, fino a 4 anni di reclusione. 633 Codice penale: invasione di edifici, tra 1 e 3 anni. Estorsione, tra i 5 e i 10 anni. Queste non sono le denunce che noi abbiamo ricevuto per l’azione all’aeroporto, sono le denunce che le diverse proprietà che si sono susseguite in quella fabbrica hanno già tentato di affibbiare all’RSU, al Collettivo di fabbrica e ai lavoratori ex-GKN. Tutte, fino a questo momento, archiviate. Ma ci hanno provato, perché questa è l’interpretazione che loro danno della nostra azione. E questa interpretazione si fa strada nella società, la stessa società dove invece non si fa strada ad alta voce l’interpretazione di cos’è la loro violenza sociale.
Perché l’unica violenza che è avvenuta alla ex-GKN e in questo territorio nei nostri confronti sono stati quindici mesi senza stipendio e tre procedure di licenziamento. Ed è violento, antidemocratico, un insulto verso la dignità di un intero territorio il fatto che, dopo dodici manifestazioni e decine di migliaia di persone coinvolte, oggi due micro proprietà immobiliari detengano quella fabbrica senza spiegare nulla a nessuno, e le istituzioni continuino a professarsi impotenti di fronte a questo fatto. Questa è una forma di violenza dall’alto verso il basso.
“Non doveva essere fatto, non dovevate entrare in consiglio comunale, non dovevate andare all’aeroporto, non dovevate fare questo, non dovevate fare quest’altro.” È vero, non dovevamo. Doveva succedere qualcos’altro: in un paese diverso doveva succedere che, se c’erano dei licenziamenti illegittimi, si faceva riprendere il lavoro. In un paese diverso doveva succedere che, se per quindici mesi un imprenditore tiene senza stipendio dei lavoratori illegittimamente, c’è un intervento per cui quell’imprenditore non apre più nemmeno un libro contabile. Noi non avremmo dovuto giocare da supplenza con i nostri corpi rispetto a quello che questa società non è e non vuole essere. Ma proprio perché invece questa supplenza l’abbiamo fatta e ce la siamo presa, non tolleriamo che nessuno venga a spiegarci come dovremmo utilizzare i nostri corpi una volta che siamo stati messi nella condizione di essere pura rabbia sociale.
Tra le altre cose, devo confessare – non so se sarà contento qualche avvocato che ci assiste in sala di tutta questa confessione – che noi molto pacificamente avevamo pensato all’aeroporto come a un luogo che dava meno fastidio alla cittadinanza, perché, se facciamo mente locale, manifestare ponte all’Indiano, sulla A11, sull’A1 o sul viale Guidoni avrebbero dato molto più fastidio alla cittadinanza. E noi non abbiamo mai voluto dare fastidio a un territorio che non è la nostra controparte. In questa lotta contro un muro di gomma invisibile, noi siamo stati sempre messi in condizione di avere come controparte un territorio che non volevamo avere come controparte ogni volta che creavamo qualche azione di disagio. Quindi ci sembrava che l’aeroporto fosse il luogo più pacifico. E invece abbiamo scoperto che è pacifico invadere il consiglio comunale, ma non è pacifico invadere la hall dell’aeroporto e forse la sfera di influenza di Toscana Aeroporti. Questo forse ci dice quali sono i rapporti di forza materiali e reali nella nostra Piana fiorentina e nella nostra società più di mille altre cose. Perché se c’è qualcosa che è il simbolo di un’economia malata, soprattutto nella Piana, che è una delle zone più inquinate d’Europa dopo la pianura padana – la piana del consumo del suolo, del sorvolo sulla testa delle persone, delle falde acquifere inquinate – credo che questo sia proprio l’aeroporto. E il fatto che chi minaccia di denunciarci sia il presidente di Toscana Aeroporti Marco Carrai, per quanto ci riguarda, chiude un cerchio rispetto a cosa siamo andati a contestare e perché siamo andati a contestare.
Ci sono stati anche diversi nostri solidali, realtà di informazione che sono sempre state al nostro fianco, che un po’ sono stati scossi da questa nostra azione. E noi siamo qui per affrontare questa questione in maniera aperta. Ho guardato i vari commenti sui social che ci sono stati nei giorni successivi, ci sono i troll di destra che ormai imperversano, denotando che c’è una predisposizione allo squadrismo – perché pure lo squadrismo verbale è lo squadrismo fisico che ancora non possono darsi, ma si stanno attrezzando anche per questo evidentemente. Guardate che le persone che si lamentano del disagio all’aeroporto non è che non si lamentano del disagio per un corteo, anche di quelli autorizzati. Non è che non si lamentano per un disagio di uno sciopero, anche dei più regolari. La verità è che c’è in questo paese ormai un pezzo del paese che non si lamenta di quello che noi abbiamo fatto all’aeroporto: si lamenta dell’esistenza stessa della democrazia conflittuale. Ed è qualcosa di cui dobbiamo prendere atto, non perché tra questi non ci possa essere qualcuno pronto a passare dalla nostra parte, ma perché dobbiamo capire che ciò che è in discussione non è il diritto all’azione all’aeroporto. Ciò che è in discussione in questo paese è il diritto stesso al conflitto sociale in qualsiasi forma.
Non ci facciamo ipnotizzare da questa retorica. Tant’è che noi siamo suscettibili e sensibili solo a un paio di critiche rispetto a quello che abbiamo fatto. La prima: se qualcuno ci viene a dire cos’altro avremmo dovuto fare, ma non sabato, nei quattro anni precedenti. La verità è che chi prova a smontare questa lotta non lo fa perché la vuole più efficace, lo fa perché non la vuole. Perché in realtà quello che avremmo dovuto fare era soccombere. Perché se abbiamo utilizzato i nostri corpi in questo modo è semplicemente perché abbiamo scelto di non rassegnarci, di non arrenderci. Ed è questo quello che non ci viene perdonato, non tanto l’azione all’aeroporto. E l’altra critica che io personalmente ascolterei volentieri è: ma perché non l’avete fatto prima? Ecco, questa potrebbe essere una discussione seria da fare: perché abbiamo scelto di farlo proprio sabato 18 e non un mese prima, due mesi prima, tre mesi prima.
Quando ti ritrovi in un’azione come quella dell’aeroporto, tu rispondi di un atto collettivo, il che non vuol dire che puoi rispondere sempre di ogni singolo atto individuale. Non funziona così. Non è successo niente di che all’aeroporto. Abbiamo le immagini, ci difenderemo in ogni luogo. È successo che eravamo con i nostri corpi a pressione, mani alzate, è la celere che ha deciso di avere un comportamento inaccettabile, fuori e dentro l’aeroporto. Poi ci sono le leggende metropolitane: “Ho visto uno che ha tirato una bottiglia”. Nessuna bottiglia, niente di niente. Ma lo dico a mo’ di provocazione: se qualcuno vuol fare il cambio tra una bottiglia tirata ai miei piedi e quattro anni di disoccupazione e quindici mesi senza stipendio, cambio posto con loro domattina.
Il punto non è che tu puoi rivendicare ogni azione individuale. Io una bottiglia non la lancerei, io non me la prenderei contro una cosa inanimata, che sia un palo o qualsiasi cosa. E peraltro non è successo questo all’aeroporto. Il punto è diverso. Il punto è che noi non accettiamo questa retorica. Cioè, non accettiamo la retorica, di solito parecchio fascista, di persone che inneggiano tutta la loro vita al “me ne frego”: me ne frego dell’ambiente, del clima, di 60-70 mila morti, di te e dei tuoi affetti, che disumanizzano dei disoccupati in presidio permanente. E poi ad un certo punto non si capisce come mai se ne fregano di tutto il mondo, ma la vetrina rotta sviluppa quella empatia umana per cui è veramente uno scandalo. Tutto il mondo può morire, me ne frego, tutto sta bruciando, ma quella vetrina rappresenta tutto il mio senso umano improvviso, e lì resto finalmente immedesimato con una vetrina che, peraltro, all’aeroporto non è stata rotta da noi. Noi tutto questo non lo accettiamo: se te ne freghi, te ne freghi anche della vetrina. Non prendiamo lezioni di civiltà da chi se ne frega di tutto.
In azioni come quella dell’aeroporto arriva della rabbia, e la rabbia può essere anche scomposta, può avvenire dalle periferie, può avvenire – lo dico senza paternalismi – da ragazze e ragazzi che dal 2008 hanno visto soltanto crisi in questo mondo e sono state relegate in casa per mesi e mesi durante il lockdown e ancora non hanno capito nemmeno perché, nessuno gli ha spiegando che cosa è successo. Ecco, il movimento operaio tende una mano a questa rabbia e non è disponibile a discuterla pubblicamente di fronte a chi la vuole reprimere, ma tende una mano, converge e si ricorda che a volte dai rave – questo governo ha iniziato proprio con il decreto contro i rave – vengono fuori i partigiani, dai governi vengono fuori i sostenitori di genocidi. Quindi noi sappiamo storicamente da che parte stare, al di là di quello che può essere il singolo gesto in un dato momento.
E quindi arriviamo alla domanda delle domande: “Quando riapre la fabbrica?”. Questa domanda oggi non ha risposta. Un corteo di 10.000 persone e un’azione come quella dell’aeroporto per sentirsi dire la banalità che un revisore contabile verrà nominato a novembre e non a dicembre? Ma pensano veramente che sia questo il punto?
Siccome viviamo in un periodo in cui tutto viene registrato, tutto viene ricordato, tutto viene trascritto, noi oggi possiamo dire che il collettivo di fabbrica in questi 4 anni ha sempre avuto ragione. E non lo diciamo perché c’è da battere su un punto, non siamo a un talk show, non siamo a prendere gli applausi, soprattutto in questa sala dove sappiamo di essere tra di noi. Diciamo che abbiamo ragione di ribadire che la partita è sempre stata truccata, perché ci si può anche trovare in disaccordo su alcuni punti, ma sui fatti serve l’onestà intellettuale.
Nel 2018 il Collettivo di fabbrica nasce perché ha la sensazione che Melrose sia venuta a chiudere la fabbrica, lo denuncia alle istituzioni, che si muovono lentamente, salvo poi essere tutti di fronte alla fabbrica il giorno in cui la fabbrica viene chiusa. Quando arriva Borgomeo, proprio in questo teatro spieghiamo la potenziale truffa della reindustrializzazione. Borgomeo aveva allora già cento milioni di euro di debiti e di obbligazioni quando viene a rilevare la fabbrica, oggi Saxa Gres di Roccasecca (stabilimento di cui Borgomeo era proprietario NdR) è in concordato preventivo tanto quanto l’ex GKN.
Quando nell’ottobre 2023 stanno per riaprire i licenziamenti, su Facebook spieghiamo il nuovo schema proprietario, le nuove scatole societarie immobiliari che probabilmente acquisiranno la fabbrica. In effetti, la fabbrica viene acquisita da questa società immobiliare nel marzo del 2024.
Quando partiamo con il nuovo piano industriale sui pannelli fotovoltaici, nonostante l’Unione Europea dicesse che avrebbe quadruplicato la produzione dei pannelli fotovoltaici, diciamo: “Guardate, abbiamo la sensazione che questa sia fuffa, perché sta avanzando il riarmo e quindi a un certo punto ci verranno a dire che non bisogna fare i pannelli, ma che bisogna buttarsi sul nucleare militare”. Sono tutte cose che sono effettivamente accadute. Eppure non siamo qui per prenderci le ragioni, ma per capire quanto la partita sia truccata. E lo è anche oggi, per quanto ci riguarda.
Il consorzio industriale della Piana non è nato per fare un favore al Collettivo di fabbrica, dovrebbe essere nato per fare un favore a questo territorio: un territorio dove oggi l’economia è basata sui capannoni “apri e chiudi”. In questi 5 anni abbiamo visto costruire in tempo zero sette nuovi capannoni soltanto nella strada che va da Sesto Fiorentino alla ex-GKN, con un consumo del suolo fuori controllo. Abbiamo visto un’alluvione, abbiamo visto le compagne e compagni del SuddCobas denunciare come la delocalizzazione sia continua e costante, non soltanto quella che è avvenuta alla GKN.
Di fronte a tutto questo, prendersi altri cinque mesi per nominare un revisore contabile prima di una campagna elettorale, stando ben zitti durante la campagna elettorale su questo fatto, significa questo: disumanizzare dei disoccupati e calcolare in maniera cinica o incompetente o ciarlatana. Del resto non è un problema loro se gli operai devono fare il Natale di nuovo in presidio, se da ottobre si slitta a febbraio: è un problema nostro. Perché al massimo di questa storia quello che si racconterà è che è vero che alla fine vincono le delocalizzazioni, che è vero che vincono loro, che è meglio l’obbedienza alla disobbedienza. Perché alla fine dopo cinque anni che cosa hanno ottenuto? Nulla! È questa la cinica narrazione che ci sta dietro.
E consideriamo non sia una casualità che ci sia stata una manovra a tenaglia contro questa lotta proprio a fine agosto, perché a fine agosto non si è nominato il revisore contabile del consorzio e uno dei nostri finanziatori istituzionali, quello più legato al mondo delle cooperative, improvvisamente rinvia le delibere, proprio nello stesso periodo. Il sospetto forte è che, non soltanto questa lotta non debba vincere, perché sarebbe un esempio contro le delocalizzazioni in una marea di crisi industriali nella Piana, dove c’è il 60% in più di ore di cassa integrazione rispetto all’anno scorso; quindi questo modello, non soltanto non deve vincere come lotta sindacale, contro le delocalizzazioni e per la riconversione ecologica, ma fondamentalmente non deve nemmeno fornire un altro modello, un modello cooperativo mutualistico.
Noi non abbiamo formato la cooperativa perché ci piace questa forma particolare, anche perché non è che in Italia in questo momento la forma cooperativa sia usata in maniera particolarmente condivisibile per noi. Ma, se il mondo delle cooperative avesse voluto salvarsi l’anima, anche semplicemente per ritorno d’ immagine, sostenendo la ex-GKN, sappiate che questo non è accaduto, con l’eccezione della base orizzontale di qualche singola cooperativa. Anzi, il sospetto forte è che sia molto meglio avere piccole e finte cooperative di autosfruttamento, che avere una cooperativa basata su un ampio azionariato popolare indipendente, dell’alto valore aggiunto, che può praticare la democrazia cooperativa operaia almeno nel suo piccolo.
E allora noi faremo questo: non sappiamo che cosa rimarrà del nostro piano industriale, perché il colpo ricevuto dal rinvio del consorzio è stato durissimo. Siamo di fronte al definitivo disaccoppiamento tra intervento pubblico e piano industriale, un piano industriale che era già in difficoltà un anno fa, quando abbiamo detto “O festa, o rabbia”. Alla fine la rabbia è arrivata. A questo punto dovremo convocare un tavolo permanente di reindustrializzazione per capire che cosa rimane del piano industriale.
Stiamo cercando di far partire in un portafoglio virtuale di un milione e mezzo di azionariato. Vedremo se ci riusciremo, perché i problemi tecnici sono effettivamente tanti. Forse dovremo cambiare piattaforma, creando purtroppo ulteriori svolte nella nostra comunicazione. Poi rilanceremo l’azionariato popolare, visto che hanno tenuto appeso questo piano industriale per 2 milioni di euro che questi finanziatori non hanno voluto concedere.
È il metodo flottilla: non chiediamo il permesso, vediamo quante navi riusciamo a mettere in mare, ci saranno tanti motori da riparare, tante navi che non partiranno come vorremmo, ci sarà tanta confusione e tanto caos, però proveremo a dare la massima autonomia a questo piano industriale, a prescindere dall’intervento pubblico.
Questo non vuol dire che rinunciamo all’intervento pubblico, so che queste parole forse da qualche parte in Regione saranno accolte con sollievo: “Ci lasciano stare”. No, non è così. Ogni cosa che riusciremo a fare sarà un alibi tolto a chi sta in alto.
(Ndr: nel corso degli interventi c’è stato anche un intervento a sostegno della lotta ex Gkn della Rsu FP Cgil dei lavoratori della Regione ed è stato ribadito che la critica alle lentezze istituzionali non riguardano chi lavora nel tecnico e amministrativo che anzi ha avuto un approccio di estrema cura verso questa vertenza)
E da questo punto di vista, l’unica cosa che chiediamo oggi è: qual è l’idea industriale per la Piana Fiorentina? Vogliono o non vogliono un polo delle rinnovabili di costruzione di pannelli, cargobike, mobilità sostenibile nella Piana? Ce lo dicano loro e mettano le risorse, milioni di euro che hanno e che ci veniamo a prendere, come abbiamo già detto, in alternativa al riarmo.
Infine come Collettivo siamo chiamati a esprimerci sullo sciopero generale convocato per il 28 novembre, è evidente che se viene convocato uno sciopero generale contro il riarmo e contro la manovra di questo governo non può che vederci solidali e complici nella promozione di questa lotta. Al contempo però noi vorremmo dire questo: l’enorme successo delle mobilitazioni tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre è stato dovuto ad alcuni elementi che non possiamo dimenticare e che non possiamo considerare accessori.
Primo: la pratica del mutualismo conflittuale, perché la pratica della flottilla ha dato a tutti la possibilità di vedere un rapporto di forza da praticare ‘qui e ora’, il tentativo di rompere il blocco. Questo non lo possiamo dimenticare e non abbiamo intenzione di tornare alle manifestazioni e agli scioperi tradizionali che non convergono verso una generalizzazione della lotta attraverso questo tipo di pratiche conflittuali.
Il secondo è che nell’enorme forza che hanno avuto quelle lotte c’è stato un ruolo dell’immaginario importante, in particolare la frase dei Calp: “Se perdiamo il contatto con la flottilla, blocchiamo il paese”. Anche il Collettivo di fabbrica, come tutte le altre lotte, ha il compito di sviluppare l’immaginario collettivo di questo paese.
L’altro elemento è che dobbiamo praticare con efficacia i rapporti di forza e di conseguenza non accontentarci di generici proclami di lotta, dobbiamo dire che cosa vogliamo cambiare qui e ora. Non so come finirà questa mobilitazione, questo è quello che proveremo a fare. Ma né la Società Operaia di Mutuo Soccorso e soprattutto l’azione che abbiamo fatto attorno al Festival di Letteratura Working Class finirà. Anzi, il Festival di Letteratura Working Class è convocato per la primavera e si terrà a prescindere da quale sarà la parabola di questa lotta.
Collettivo di Fabbrica GKN
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