Navigando in rete, passo dopo passo, plasmiamo un profilo in relazione al contenuto che riceviamo sulla base di caratteristiche derivate dalle nostre scelte, cosa che porta a un rinforzo del senso di identità: è questo il lavoro dell’algoritmo. Il problema non è allora che ci sia un algoritmo incorporato nella piattaforma – sarebbe impossibile il contrario – ma del fatto che si tratta di un algoritmo omofilico di default.
La progettazione della rete omofila è essenzialmente l’automazione della familiarità, sostenuta da una particolare predisposizione concettuale (sociologica). Quando incontri e confronti con l’estraneo e lo strano sono proibiti algoritmicamente, l’alienazione è stata superata, in un senso distorto e non intenzionale. C’è poco da festeggiare in questo caso di superamento dell’alienazione. Se il cambiamento immutabile continua a incarnare la nostra condizione, viene reificato solo dall’automazione della familiarità, e il prezzo che paghiamo collettivamente per questo pregiudizio iniziale di “connessione all’allevamento della somiglianza” viene catturato dalla nostra carenza nell’ipotizzare nuove prospettive. (Patricia Reed, La xenofilia e la denaturalizzazione computazionale).
È la conseguenza dell’effetto bolla di cui abbiamo già parlato. Ma l’espulsione dell’altro, il modo di privilegiare l’omofilia e stigmatizzare la xenofilia, è l’effetto immediato del bisogno della messa a valore delle piattaforme digitali, da parte del capitale. La rete è comunicazione/informazione, ma la sua messa a valore la modella anche, se non soprattutto, come mezzo di intrattenimento. Scopo dell’algoritmo è trattenerci dentro la piattaforma. Intrattenimento e distrazione sono attributi del gioco quando questi si manifesta in negativo a partire dal serio, dal tempo del lavoro. In questo la pervasività del progetto capitalista: la sussunzione al processo di produzione anche del tempo libero. Del tempo del piacere, del tempo e dell’età pre-lavorativa, del tempo adolescenziale. È il lavoro in particolare delle piattaforme social come Tik Tok o come Instagram. Ma anche di una forma di comunicazione condensata come quella dei “meme”. La “connessione all’allevamento della somiglianza” di Patricia Reed segna dunque il carattere mimetico della rete.
Il termine meme viene dall’ambito della biologia evoluzionistica ed è stato coniato da Richard Dawkins nel libro Il gene egoista del 1976 dove ha introdotto il termine meme per descrivere una unità base dell’evoluzione culturale umana analoga al gene, unità base dell’evoluzione biologica, in base all’idea che il meccanismo di replica, mutazione e selezione si verifichi anche in ambito culturale. Nell’ambito della comunicazione, della semiotica e dell’informazione, il meme può riferirsi allora a melodie, idee, slogan, modi di vestirsi, modi di fare vasi o di costruire archi e altro ancora; può anche essere un’espressione di quelle “forme di vita” come Tik Tok stessa, dice Cassia Siqueira. Nasce il concetto di “Internet meme”. Esso è una unità di informazione (idea, concetto o convinzione) che si replica via Internet sotto forma di immagine, video o frase e che può mutare ed evolversi. Tale mutazione può infatti avvenire per significato, per struttura o per forma.
Il cognitivista Dan Sperber, intendendo il meme come un replicatore culturale, sposta l’attenzione sulla natura rappresentativa dello stesso e ne analizza il processo di propagazione, che può essere verticale (su generazioni, come i geni) e/od orizzontale (tra i membri di una certa popolazione, come i virus). Un habitat quindi tipico della rete dove la riproduzione orizzontale è quella all’interno delle bolle, la sua viralità, la sua moltiplicazione esponenziale quale manifestazione del proliferare delle infinite sfaccettature del medesimo. E quella verticale equivale invece all’effetto spillover, al salto di specie che fa del meme informatico l’unità pandemica per eccellenza, capace di uscire dalla piattaforma che lo ha generato e di infettare tutta l’infosfera. Continuando a giocare all’interno della metafora, si assiste allora al passaggio da una prospettiva di riproduzione genetica (meme-gene) a una modalità di riproduzione virale (meme-virus) che prevede la presenza di un ospite per replicarsi: l’utente delle piattaforme. L’unità memetica topica da cui estrapoliamo il possibile valore memetico di un certo tipo di informazione, ha una fondo visivo sul quale una didascalia funziona da commento spiazzante. È un tratto sovrasegmentale del linguaggio. Una specie di emoji o di emoticon che aggiungono valori emotivi all’alfabeto e che fanno da commento alla significazione stretta. Si tratta di comunicazione empatica attraversata da una forma di giudizio, da un tratto linguistico che la situa in un contesto. Non a caso i meme più diffusi hanno spesso come immagine di base un’espressione facciale. Un meme ha bisogno anch’esso però di un piano di riferimento, di una grammatica, di una serie di convenzioni attraverso le quali può prendere forma anche la sua capacità di significazione. Un meme è sempre convenzionale, se non lo fosse non sarebbe comprensibile. E il linguaggio empatico ha appunto questa caratteristica. Paul Ekman, per esempio, afferma l’esistenza di programmi neurofisiologici innati che danno luogo a emozioni primarie a cui corrispondono specifiche espressioni facciali, universalmente riconosciute. La meraviglia, la sorpresa, l’ironia, l’appeal comico o tragico non nascono dal nulla, ma da una serie di credenze condivise. Questo rimanda a quel tipo di comicità di cui parla Pirandello (ne avevamo già parlato qui) dove la comicità è basata su una vittima che mostra la propria incongruità, ma anche al concetto di ironia descritto da Deleuze. Si tratta di una distinzione tra ironia e umorismo che si attua nel diverso atteggiamento che si tiene rispetto alla istituzione, alla legge. Nel primo caso si ha questo: «Chiamiamo sempre ironia il movimento che consiste nel superare la legge verso un più alto principio, per riconoscere alla legge soltanto un potere secondo» (p. 84). L’ironia svela allora il fatto che la legge non sia il potere delegato ma quello usurpato. Mentre l’umorismo non sarebbe «più il movimento che sale dalla legge verso un più alto principio, bensì quello che discende dalla legge verso le conseguenze» (p. 87). Dove il lato umoristico si manifesta allorquando si applica la legge alla lettera con conseguenze disastrose. In entrambi i casi per avere l’effetto ironico o umoristico c’è il rapporto con una istituzione, con una pratica conosciuta che così viene messa in discussione. In entrambi i casi c’è una dipendenza da un tratto convenzionale, che è spesso un’espressione del senso comune che nella sua diffusione si istituzionalizza. Di nuovo ci appare che i meccanismi che la rete promuove siano in qualche modo degli strumenti di consenso anche quando apparentemente lo sbeffeggiano. Il meme permette una ristrutturazione dei dati a disposizione che consente di cogliere nessi non percepiti prima. In effetti, un meme assume senso e significato solo se immagine e didascalia, apparentemente non correlate, vengono abbinate e l’allineamento concettuale dei due elementi consente di cogliere qualcosa di nuovo. Il costrutto psicologico che sicuramente emerge è allora quello dell’identità, in particolare di quella sociale, e i concetti di appartenenza e classificazione ad essa associati
L’identità sociale si costruisce fondamentalmente per mezzo di tre processi collegati tra di loro: la categorizzazione, l’identificazione e il confronto sociale. L’individuo ordina e semplifica la realtà facendo riferimento a un numero non infinito di categorie di appartenenza, «tendendo a massimizzare le somiglianze tra soggetti di una stessa categoria e le differenze tra categorie contrapposte» (Qui). È questo il piano, la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale che segna poi il senso di appartenenza a l’una o l’altra di queste categorie. «Infine, l’individuo confronta continuamente il proprio ingroup con l’outgroup per mezzo di bias valutativi che lo portano a favorire il proprio gruppo e a svalutare gli altri. Questi processi di definizione di un’identità sociale positiva, rispondono al bisogno di autoaccrescimento e autostima» (Ibidem).
Su questo terreno il meme è spesso un veicolo privilegiato per la costruzione e il consolidamento del pregiudizio (bias) come per esempio per quelli di genere per i quali i maschi sarebbero statisticamente meno inclini a tenere dei comportamenti salutari. Dove il vir (la forza) di virile si oppone alla cura di sé. Con tutte le conseguenze del caso. Pregiudizi che portano a identificarsi con il contenuto di un meme contribuendo a costruire un’idea di sé, o a collocarsi in un gruppo sociale o fuori dal gruppo, oggetto del meme stesso. «I memi, come i geni, lottano per sopravvivere, ovvero per replicarsi, e a volte mutano in memi più adatti» (Qui). Il meme non equivale al segno semiotico, cioè alla mera rappresentazione di qualcosa, bensì è un insieme a sé stante di informazioni o di comportamenti, che interagiscono tra di loro. Spesso una è di tipo emotivo mentre l’altra è di tipo linguistico. Ma il loro carattere è la loro capacità di passare da un soggetto ad un altro e per farlo bisogna che mostrino il loro appeal mimetico. Imitano il comportamento dei virus che riesce a passare da un corpo ad un altro, a essere contagioso. Ma come nel gioco del “passa parola”, «pochissimi memi mostrano un’elevata “inerzia memetica”, che è la caratteristica di un meme di venire espresso nello stesso modo e di avere lo stesso impatto a prescindere dalle persone che lo stanno trasmettendo e ricevendo» (ibidem).
Ma il meme non è soltanto un’immagine sovrascritta da uno slogan, un meme è anche, per contagio semantico, un ritornello, una canzoncina, lo slogan stesso, una moda, uno stile, un modo di fare sia nel senso di un comportamento o di una tecnica.
Il meme è allora consolidante, consolatorio, identitario, conservativo pur nella sua capacità spiazzante. Non è frutto di un modo di organizzare la critica allo status quo. Ne è spesso il veicolo, il buffone di corte che sbeffeggia il sovrano di cui è al soldo. È il joker sia come contenuto (molti meme hanno come soggetto la sua espressione ambigua), sia come aspetto funzionale: la capacità performativa del giocoliere, del clown. Non è una forma di organizzazione verticale del dissenso, al limite è puro dissenso, reazione emozionale che si diffonde non per vie grammaticali, ma per vie mimetiche ed emozionali. L’atto di rivolta, il sussulto istintivo che quando è collettivo è il comportamento dello sciame, dello stormo, nel quale non c’è nessuna singolarità se non una replica, una scopiazzatura del comportamento dell’altro. Il meme replica il gesto, non è programmato né programmatico. È il gesto fuori posto, ma anche quello più arrogante, più rumoroso, più evidente, più esplosivo. È la rivolta del joker che provoca uno sciame di devastazioni. Il saccheggio è un atto mimetico. Il saccheggio non è organizzato. Ma non è un atto solitario. Nel leggero brusio che si solleva dalle manifestazioni di dissenso delle sinistre radicali organizzate, l’esplosione delle rivolte è un atto di una potenza esponenziale. Non occorre nessun dialogo, nessuna fase programmatica, soltanto un semema da poter semplicemente imitare. Occorre una libertà afferrata e non concessa. La libertà senza senso del gioco e della danza, lo scatenarsi libero di un corpo senza organi:
Quando gli avrete fatto un corpo senza organi,
allora l’avrete liberato da tutti gli automatismi e
restituito alla sua libertà vera ed immortale.
Allora reimparerà a ballare a rovescio
come nel delirio della danza popolare
e questo rovescio sarà il suo vero diritto
Paul Torino e Adrian Wohlleben parlano di “meme con la forza” ipotizzando un meme della rivolta. Non una rivolta che faccia uso di memi, ma forme di insurrezione che hanno la struttura di un meme. I Gillet Jaune che sono la forma identitaria trasmessa per imitazione, sono essi stessi meme così come l’occupazione delle rotonde. «Così come il movimento reale può essere catturato e canalizzato nel movimento sociale, le formazioni di un movimento sociale possono subire dei divenire che le mettano in contatto con il movimento reale, permettendo loro di superare i propri quadri direttivi. Questo è ciò che è successo al movimento contro la Loi Travail nel momento in cui il cortège de tête lo ha trasformato in un meme» (ibidem). Secondo i due autori la rivolta politica e la rivolta contro le vetrine sono allora un modo memetico di destituire il potere. Un dispositivo di cattura che va oltre la divisione tra polis e oikos, una possibilità di aggregazione che vive sullo scarto tra il dover fare e il fare. Il disordine del saccheggio è quel lato ironico e umoristico che sfugge l’istituzione e l’istituzionalizzazione dell’azione.
Politici, organizzazioni di sinistra, sindacati e ONG inizialmente si distanziano da questa mischia confusa e ne denunciano la violenza. La folla non presta loro attenzione, perché non deve loro alcuna fedeltà. Appena realizzano di essere state eclissate, le organizzazioni di sinistra non hanno altra scelta che rimettersi a seguire le folle con la coda tra le gambe e da una posizione di retroguardia. Studenti universitari e manager di medio livello di ogni estrazione sociale provano a gettare discredito e dividere i rivoltosi, razzialmente, sessualmente, geograficamente, per classe, su un qualsiasi asse di identità, per riuscire a trovare un punto fermo nel caos. Nello stesso momento la polizia pratica la sua classica e pesante repressione che estende (all’inizio) l’antagonismo e la lotta, obbligando il governo a inviare la Guardia Nazionale. Quando raggiungono questo punto le lotte possono dissiparsi oppure cominciare a fratturare le forze armate e indurre a una defezione sociale diffusa…
Il “discorso” (il logos) di sinistra non funziona più perché è in atto un’altra forma di linguaggio, di grammatica e sintassi. La rivolta cova indipendentemente dalla capacità di fare presa che i movimenti e i militanti sono capaci di mettere in atto. Proprio perché invece che a una composizione, ricomposizione, di un soggetto antagonista, la possibile aggregazione avviene su sensazioni più profonde. L’inadeguatezza, lo scarto, la discrepanza tra il proprio sentire e il modello che ogni istituzione propone al lavoro, a scuola, nel tempo libero, nel sociale. Non è il perché ci si ribella il motore, è la ribellione in quanto tale che unifica. L’aggregazione è a valle e non a monte. È l’aprirsi anche improvviso di uno spazio di rivolta.
La ribellione non ha allora come obiettivo soltanto dei simboli precisi e riconoscibili, ma cose molto più generiche, la distruzione e il saccheggio che non è un attacco alla forma mercato, ma il modo più diretto possibile per una folla di concretizzare, esibire e sentire il potere che ha strappato allo stato e alla sua polizia, di rendere questo potere reale, di realizzarlo. «Nessuna attività come il saccheggio conferma in modo così diretto l’assenza di controllo della polizia su un territorio, la sospensione e l’inoperatività della legge […] il saccheggio annuncia la restaurazione profana sia delle merci che dei poliziotti nel dominio del sensibile: d’ora in poi, la polizia è solo dove appare, proprio come le merci possono essere “possedute” solo a condizione che si possa trasportarle o consumarle sul posto. Riducendo il potere e il consumo al dominio del libero utilizzo, il saccheggio permette di sentire l’assenza di autorità in un modo altrimenti impossibile» (qui).
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Antonin Artaud, Per farla finita con il giudizio di Dio, Edizioni del Sole Nero, pag.47
Gilles Deleuze, Presentazione di Sacher Masoch, Bompiani, Milano 1978
Gilberto Pierazzuoli
(*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale”, libro di prossima stampa uscito a puntate proprio su questo spazio. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti.
Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link.
Gilberto Pierazzuoli
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