Come la rete fomenta il complottismo
Per una Critica al Capitalismo digitale – Intermezzo.
Il grande contenitore che è la rete e i social hanno permesso la moltiplicazione delle verità. Il bisogno di profilazione degli utenti da parte degli algoritmi del Capitale Digitale ha parcellizzato la realtà disperdendola in mille bolle dove ogni idea, ogni credenza trovava riparo, trovava casa. La globalizzazione della realtà, non era uniformante, era un proliferare caleidoscopico, una dispersione di schegge della deflagrazione dell’ordinario. La bolla individuale trovava spessore nella possibilità di un rispecchiamento in rete. La casa delle idee, una per casa, non era disabitata: la rete forniva inquilini. La rete ti permetteva di abitare il mondo, di costruirti un rifugio, di abitarlo, di ospitare il medesimo, di ignorare l’altro o di odiarlo, di negarlo. Di negare tutto quello che non è il medesimo. La bolla è nello stesso tempo rifugio e mondo, è un modo per abitare il mondo, lasciando il mondo fuori dalla bolla.
L’epidemia è diventata pandemica. Non era un problema dell’altro, la minaccia poteva presentarsi nella veste del medesimo. L’informazione doveva essere filtrata dalla bolla, ma questa volta il pan, il tutto, richiedeva di universalizzare la verità. La rete, nei tempi prepandemici, in realtà non univa, moltiplicava e centrifugava le opinioni (le doxa). Quando il virus entrò in rete approfittando del carattere promiscuo e pellegrino della specie; quando il virus costretto ad un salto di specie trovò il suo habitat; quando il virus stanco dei salti di specie, trovò una specie specificamente adatta, si attaccò alla specie umana tutta. Allora, da fuori delle bolle, girava una verità, un’ipotesi scientifica, un protocollo, una strategia che cozzava con il sistema delle bolle che sino a quel momento si erano lasciate fare, si erano lasciate moltiplicare e consolidare. Per prima cosa le bolle, ogni bolla, cercò, come aveva fatto sino a quel momento, una propria interpretazione, una propria verità, ma che non poteva totalmente rassicurare gli abitanti della bolla perché per la prima volta da fuori arrivava una verità che si voleva imporre. In ogni bolla ribolliva l’astio e il disagio, quando cominciò a filtrare oltre al virus, l’ipotesi del complotto dei complotti, quello che avrebbe tacitato tutte le voci che avevano rivelato i complotti: il virus era il complotto. In quei giorni si ritrovarono in piazza tutti gli abitanti delle bolle, meno quelli che, da un’altra bolla, denunciavano il complotto Capitalista che aveva formato le bolle, perché si vergognavano a marciare insieme a coloro che avevano deriso, accontentandosi di essere gli unici che abitavano la bolla di quelli che credevano all’esistenza del virus. Fuori, a sfilare in corteo, c’erano i no vax, i no scienza, i pastafariani credenti, i mistici della Madonna delle Sieci, i reduci di Lourdes, quelli che aspettavano il ritorno dei draghi con quelli che ascoltavano Draghi, quelli della dieta insettivora, i vegani microbiotici e quelli batterici, dodici diversi partiti comunisti italiani, Emanuele Filiberto di Savoia circondato da tutti i due monarchici negazionisti, i no no, i no si, Vittorio Feltri, la redazione di Porta a Porta, Rita Pavone, i negazionisti del no, la squadra di bob a quattro della Giamaica, canale uno, rete quattro e Controradio, ma anche un mucchio di gente arrabbiata.
Di fronte all’elenco infinito delle ingiustizie, ci si chiede spesso perché la gente non si rivolti. In realtà il mondo è pieno di rivolte, di persone in preda al panico, alla depressione, vittime della precarietà e della umiliazione. Ma la controparte è sfuggevole. Di fronte alla precarietà, all’ansia, alla paura non si può fare altro che cercare un rifugio. La precarietà, l’ansia, la paura assomigliano alla sensazione di essere senza casa, lontani da casa; a una sensazione di spaesamento che è la somma tra il sentirsi fuori casa e il sentirsi soli, di non avere un paese in comune, niente in comune. Così si abitano le bolle. Quelle capaci di darti delle risposte semplici, quelle capaci di inventarsi un nemico; un nemico visibile, non astratto e irraggiungibile. Spesso serve dare un nome al nemico, individuare il nemico: Soros, Bill Gates, la vaccinazione di massa che ti fa sentire di essere uno della massa, carne al macello, bocca silenziata. Non il popolo, il popolo sono tutti; non i poveri, che non sempre si è poveri, che non sempre ci si sente poveri, perché sentirsi poveri non è un bel sentire, perché essere poveri è un po’ una colpa. La sinistra mostrata dai media mainstream è quella che pianifica gli impoverimenti, quella che lavora per spianare la strada ai ricchi. Gli zingari, i migranti, i negri non ti fanno sentire a casa. Loro vengono a casa tua. C’è bisogno di sicurezza e la sicurezza non sono i dubbi, i confronti, il lavorio dell’io sull’altro. Il corpo istintuale prende il sopravvento. Il corpo critico non è sociale, vive in bolle troppo trasparenti, dietro pareti osmotiche; non è impermeabile all’altro. Le bolle aperte dei navigatori del sapere, fanno paura. Bisogna armarsi, spararsi, pensano in America. Ci vuole decoro e il decoro è la mancanza di stimoli. Una linda superficie piatta senza ostacoli. La povertà non è una bella cosa, anche se la si vive, non la si ostenta, la si nasconde, la vogliono nascondere tutti, ricchi e poveri. Poi c’è la frustrazione. In un ambito competitivo, il fatto di non sentire riconoscere il proprio valore. Lavorare per valorizzarsi e non essere riconosciuti, ma anche sentirsi in colpa per la mancata valorizzazione; sentirsi risucchiati in quella situazione indistinta che ti fa annaspare nel mucchio per emergere dal mucchio che intanto si infittisce. La guerra tra poveri c’è e bisogna combatterla.
[…] si comprende come il troll non sia mera identità; esso è innanzitutto rabbia, disgusto, sdegno, indignazione verso una società che non comprende e/o che lo rifiuta, solitudine, depressione, noncuranza – e, bhe, altre cose spiacevoli. […] Sui forum e sulle board, le comunità troll si tramutano in comunità tribali che assaltano in massa la parte visibile dei social network, e che possono essere catturate e radicalizzate dalle bolle politiche dell’estrema destra (da qui).
C’è la bolla del chi se ne frega. Del farsi i propri comodi. Di abitare la bolla che ti passa il convento. Di vivere la propria ignoranza senza sentirsi in colpa. Di vivere i propri privilegi di classe, di genere e di razza. Con bolle sessiste, bolle razziste, bolle boriose. Per non farsi sentire più dire cosa è giusto fare. Per non farsi sentire più dire cosa non devi fare. Bolle per ogni gradino sociale, per tenersi aggrappati ai pochi apparenti privilegi che ti toccano.
Di padroni che posteggiano la Ferrari nel cortile della fabbrica non ne sono rimasti tanti e quando ti licenziano, non è il padrone che lo fa ma il sistema, la globalizzazione o qualche altra ragione rispetto alla quale sei impotente. Ma anche i licenziamenti vanno meno di moda è molto più semplice assumerti a tempo determinato così il licenziamento lo sottoscrivi all’inizio. Che, se poi sei donna, spesso la firma sulle tue dimissioni la devi mettere all’atto della tua assunzione anche quando il contratto è a tempo indeterminato.
Andy Clark pensa che la nostra mente, la mente organica, per certi versi, abbia problemi simili a quella digitale, abbia cioè una tendenza predittiva. La percezione sarebbe infatti sempre interpolata su un precedente modello costituito dalle aspettative che abbiamo immagazzinato sul probabile assetto del mondo (vedi qui il post di Tommaso Guariento). Per spiegare il senso dell’ipotesi di Clark, possiamo usare un esempio che viene proprio dal mondo informatico. La mente umana si servirebbe di una cache come quella dei browser, di una memoria cioè che tiene conto delle visite precedenti in maniera tale da predire il contenuto della pagina da caricare. La percezione si baserebbe infatti su frame interpretativi accumulati durante le precedenti esperienze. Falsi frame condizionerebbero così la percezione stessa. In questo modo si crea la possibilità di un loop inferenziale che può legittimare anche il falso. Partendo da una falsa premessa la cui falsità non era poi così manifesta o che non era più tale, si possono inferire deduzioni che rafforzano l’errata percezione iniziale. Come abbiamo detto altrove, riferendoci ai lavori di Libet, si tratta di funzionamenti preconsci e di tipo istintuale che la velocità della comunicazione in rete privilegia, ma che contengono la possibilità della creazioni di mostri che la condivisione e l’effetto cerchie (filter bubble) consolidano.
Qui la I parte
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*Gilberto Pierazzuoli
Gilberto Pierazzuoli
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