Il libro di Margherita Pascucci sfiora le 400 pagine ma rimane denso. È un testo che prosegue, e forse non conclude, il lavoro che Pascucci ha iniziato con La potenza della povertà e proseguito con Causa sui, che consiste nel cercare e descrivere i concetti e i dispositivi attraverso i quali la forma produttiva capitalistica opera e viene oggi percepita. Concetti e dispositivi che si sono formati nel tempo, che si sono evoluti a partire da delle condizioni storiche e sociali che hanno portato infine questo modello socioeconomico a essere quello che è oggi e cioè una macchina che contiene ingranaggi, connessioni, campi di forza, ingressi e uscite, per flussi materiali e immateriali che operano su più piani tra i quali quello semantico o della significazione che agisce sia nella ricerca del consenso, sia per quanto riguarda il funzionamento stesso del sistema. C’è come un filo invisibile che si dipana innervando quello che oggi chiamiamo l’Occidente di quei dispositivi concettuali che hanno come prima origine, l’incontro di due contingenze: l’invenzione del conio, del denaro e il passaggio dal politeismo al monismo. Eventi che si presentano entrambi nella Grecia del VII secolo a.C. Eventi che hanno delle conseguenze immediate e che condizioneranno il pensiero occidentale, rendendo altresì possibile l’esistenza della Macchina Capitale.
Da quell’inizio a questa fine si tratta di un concatenamento che scrive la trama e il destino delle strutture socioeconomiche dei popoli occidentali. Scovare i nodi, i passaggi, le costruzioni, i conflitti che segnano questo percorso, è il compito che si è posta Pascucci. Ma non è mettere in evidenza ogni singola connessione e trasformazione che portano e costituiscono la Macchina Capitale odierna, ma porre principalmente attenzione a quegli elementi che la giustificano, scovando nello stesso tempo quelli che ne mostrano le criticità e rivelano la possibilità stessa del suo possibile oltrepassamento. Pascucci parla di “cartine di tornasole”, uno strumento che mostra la presenza di un qualcosa altrimenti non percepibile, qualcosa che mostra il funzionamento ma anche le radici, i ragionamenti e gli eventuali assiomi che lo permettono, mostrandone, dove possibile, anche i punti deboli. Come ho detto si parte dalla invenzione del denaro e con essa del pensiero astratto, evento che va di pari passo e interagisce con il passaggio dal politeismo a quella figura unica del monismo dei primi culti misterici, una figura anch’essa astratta che condensa ed equipara più funzioni come fa il denaro nei confronti delle cose, permettendo la loro riducibilità a merci. Si passa poi al dibattito teologico sul tempo della creazione che introduce a tutta una serie di concetti che mostrano una potenza seminale, creativa, che possono essere insiti nelle cose stesse (causa sui e ratio seminale), un processo che va dagli stoici a Duns Scoto, passando per Agostino. Ci si muove infatti in direzione di una dinamica autogenerativa. Questo perché essa – la Macchina Capitale in divenire – avrà insita in sé la virtualità di produrre dei plus. Ma anche perché ha fatto presa, si prende e si prenderà e si nutrirà di quella produzione di differenziale che si origina da se stessa, ma anche da questi meccanismi e dagli sviluppi che essi produrranno.
Con l’invenzione del denaro, dell’equivalente generale, “si è creata la prima astrazione che ha permesso di omogeneizzare le differenze e scambiare i prodotti (ha anche permesso di spostare il debito insito nel corpo dello schiavo sul denaro, così estrapolandolo e oggettivandolo, e dando la possibilità allo schiavo di riscattarsi): già nel rendere commensurabile qualcosa di diverso si è operato un primo piccolo salto”, dice Pascucci (p. 16). E prosegue poi su su, sino al potere governamentale, fino all’accaparrarsi di quel “diritto alla ricchezza di chi detiene il potere (è il capitale) (oggi)”, (p. 356).
Sarebbe qui impossibile rendere atto dell’enorme lavoro svolto dall’autrice che vi ha espresso anche una capacità non comune di mettere in relazione ricerche e concetti formulati in tempi diversi da personaggi i cui intenti potevano andare in altra direzione. Pascucci usa inoltre un metodo particolare, quello di lasciare la parola direttamente agli autori riportandone il più possibile le citazioni dirette che lei mette in relazione, ma che anche riprende per fare emergere da queste gli aspetti dirimenti e fondanti per il suo intento. Ci troviamo così di fronte a un puzzle di brani di questi autori (situazione voluta e che lei dichiara apertamente di aver voluto perseguire) ma anche di quelli che questi stessi autori hanno discusso. Sin dal primo capitolo si prende così atto del lavoro di Alfred Sohn-Rethel a riguardo del parallelismo della nascita del conio e del pensiero astratto – cosa che, chiudendo il cerchio, costituirà la base dell’ultimo capitolo – ma tutto questo Pascucci lo fa anche attraverso la lettura che di questo autore ne fa Richard Seaford e di esempi di questo tipo ne potrei fare molti. Il risultato è di trovarsi di fronte a lunghe citazioni seguite dalla interpretazione e lettura che ne dà l’autrice che per evidenziare l’operazione, cita di nuovo piccoli brani estratti dal testo più lungo che ha appena riportato. Come un voler preparare il lettore e permettergli la conoscenza del testo esteso sul quale poi le opera così in maniera più trasparente. Fortunatamente questa prassi aiuta alla comprensione e, nelle ripetizioni, alleggerisce la portata delle quattrocento pagine del testo.
Pascucci riesce così a mettere al lavoro Deleuze e il suo concetto di differenziale, il Differente che rimanda all’univocità dell’essere e quindi a Spinoza e Nietzsche. Elemento che svela e mette in mostra le relazioni di sfruttamento “sia esso metafisico, ontologico, economico, della natura” (p. 357). Questo per ottenere quel grimaldello concettuale del “più di essere” insieme a quello di “coefficiente di produzione della diseguaglianza” che fanno emergere le relazioni di sfruttamento ma che possono, nello stesso tempo, essere “strumenti materiali per la rifondazione materialistica delle relazioni di produzione” (Ibidem).
Ma se non è possibile rendere conto di tutti i ragionamenti, possiamo però entrare nel merito di alcuni di questi passaggi. Almeno di quelli che ci sembrano più significativi o sui quali è per me più semplice interloquire a distanza. Ecco alcuni passaggi che a memoria mi sembrano significativi.
Il capitale si autogiustifica e esercita il suo dominio, non tanto o non solo attraverso la violenza costituente benjaminiana, ma attraverso dei dispositivi semiotici. Il divenire capitale del denaro, la possibilità di autofruttificarsi “che, infatti, inizialmente è la cifra del suo autonomizzarsi”, nel gergo medievale ‘ratio seminale’ “è contemporanea ai dibattiti sull’usura, sulla mercatura, sull’usus pauper, sulla proprietà, sulla proprietà ‘come dimensione del soggetto’, sul diritto a non possedere” (p. 224). Situazione che si sistematizzerà in “un’assiomatica che corrisponde al momento in cui il lavoro da schiavitù e servitù della gleba diventa lavoro libero e nudo e il capitale diventa ricchezza autonoma e indipendente” (Ibidem). Una macchina che si raffina cioè, attraverso il passaggio dal lavoro asservito dominato dal denaro (il valore dell’affrancamento dello schiavo), al lavoro nudo, assoggettato, reso oggetto di un potere trascendentale (il capitale) che pone esso stesso le condizioni della sua stessa realizzabilità. Ecco che il capitale non solo si appropria della forza lavoro ma anche della capacità del lavoratore di essere forza lavoro che diviene un diritto del capitale a possedere questa capacità del corpo-mente altrui, in definitiva come ricchezza che ha la capacità di aumentarsi. “Il ‘salto’ si trova in questo ‘far sua’ la vita altrui in modo astratto (i.e. il rendere costitutiva di sé la vita del lavoratore quando il capitale non è parte costitutiva della vita del lavoratore) che implica ad un tempo un mimetismo, un camuffamento della forza produttiva (e il gioco di anticipazione-allontanamento/stoccaggio, messa in latenza, ne rivela il marchingegno e una dipendenza distruttiva” (p. 225) In questa condensazione di un rapporto che si crea nel tempo attraverso vari dispositivi semiotici, attraverso le trasformazioni del senso e dei rapporti ai quali esso si riferiva, si ha così una presa di un diritto astratto che è poi la presa del corpo-mente altrui. Non si tratta infatti di un semplice assoggettamento lavorativo, si tratta di una presa totale, elemento che si fa ancor più manifesto attraverso alcuni rapporti di lavoro contemporanei nei quali si mette al lavoro “l’anima” stessa dei lavoratori. È anche in questo aspetto che si fa presente ed importante il lavoro di Pascucci che ci restituisce dei punti fermi sui quali poter innestare tante altre considerazioni. Questa presa totale mette in secondo piano il tempo lavorativo, lascia aperta l’attenzione da dare ai fattori di riproduzione della forza lavoro, smaschera i ruoli assegnati ai vari attori sociali, al genere e all’ambiente. La sottomissione e la predazione si danno infatti come dovute e vengono camuffate come elementi del naturale svolgersi delle cose del mondo.
La Macchina Capitale è la forma che si dà il capitalismo contemporaneo che ingloba e fa proprie anche le forme di reificazione del passato. Anzi la Macchina Capitale è macchina non soltanto in quanto congegno che realizza la perpetualizzazione del diritto alla ricchezza dei ricchi siano essi imprenditori o semplici rentier, se non speculatori finanziari, ma anche per il suo essere il risultato di un’evoluzione di un rapporto sociale ed economico che si dipana nel corso di un tempo assai lungo, forse a partire da VII sec. a.C. È uno strumento che per aggiustamenti progressivi e concatenazioni varie si complica a macchina. “Una cascata di nozioni che gemmano le une dalle altre” (p. 192). È la macchina che ha sostituito l’economia alla koinomia originaria; che ha trasformato la crematistica aristotelica in un dispositivo universale che comprende adesso sia la distribuzione sia il consumo, una macchina totale che è quello che è, proprio perché si fonda su trasformazioni del modo di percepire il mondo e la verità stessa. È una macchina che si assolutizza perché è figlia e madre degli stessi processi di veridizione, di validazione della verità, che si sono costituiti nel tempo o che ha fatto in modo che così si costituissero. La Macchina Capitale non è semplicemente la macchina della produzione, non è semplicemente un modo di produzione, è un modo dello sfruttamento, è il modo stesso di strutturarsi dello sfruttamento, di aggiornarsi e di legalizzarsi, normalizzarsi dello sfruttamento.
Ma, pur nella sua ricchezza di rimandi e chiarificazioni, nella sua capacità di trovare le radici dello sfruttamento e del suo modo di strutturarsi nel corso del tempo, il lavoro di Margherita Pascucci vuole andare anche oltre. Cerca il modo del suo superamento, mette in evidenza i punti per i quali la Macchina Capitale diventi sabotabile; prova a suggerire le vie di fuga da quel sentiero obbligato che ha portato l’architettura della macchina a essere quello che essa è oggi. Se il capitale occulta alcune pratiche e se il compito che l’autrice si è dato è quello di fare un’operazione di svelamento delle stesse e di rivelarne le più intime connessioni e rimandi, Pascucci non si dimentica di cercare i modi di sciogliere i nodi che hanno imbastito la struttura stessa della forma attuale del capitale. Ecco il concetto di ‘produzione adeguata’:
Se vogliamo rovesciare la sintesi appropriativa del capitale in differenziale materialistico, ossia fronteggiare il meccanismo di sfruttamento del capitale (riassumiamolo per brevità nella formula del saggio di sfruttamento, anche se sappiamo che non è così semplice) e mostrarlo come rapporto differenziale materialistico – mostrando cioè, che ciò che viene sfruttato è intrinseco al rapporto produttivo e quindi parte del lavoratore, suo lavoro vivo, che dovrebbe quindi trasformarsi, all’interno di una ‘produzione adeguata’, in ‘più di essere’, e costituire così la ricchezza vera -, dobbiamo rovesciare la struttura di ‘presupposto’ del capitale e immaginare un rapporto produttivo con al cuore il valore del lavoro vivo e non la sua appropriazione. […] Questo ‘più di essere’ non è appropriabile dal capitale ma rimane parte costitutiva della vita, dell’essere del lavoratore, di quel ‘quanto’ di comune che nel lavoro lo rende costruttore di società ma che rimane sua singolarità: è l’espressione viva del rapporto produttivo, intrinseca a questo rapporto, nel contempo accrescimento della singolarità e proprietà collettiva che ci piaccia o meno bene comune. (p.279)
Allora la presa della vita del lavoratore da parte del processo produttivo, quel dispositivo “che permette l’appropriabilità non solo del prodotto del (plus)lavoro ma della capacità produttiva stessa del lavoratore, il suo ‘quanto’ di vita sociale, il ‘quanto’ di comune”. […] Se il valore è una produzione del comune, è la sintesi procedurale, il ‘processual concept’, espressione del lavoro umano astratto, è da questa comunità della produzione che possiamo ripartire” (p. 288). Sarebbe come dire che l’apparato della produzione sarebbe bene comune ma non nel senso di una sua proprietà di tutte/i, ma collettiva e quindi di nessuno, per cui il loro uso non sarebbe alienato e alienabile ma – di nuovo – non a disposizione del singolo, dei vari singoli, ma a disposizione di quel soggetto collettivo che si forma, e continua a formarsi dalla collaborazione tra tutte/i. Quel plus di ricchezza che scaturisce da quel regime collaborativo che produce “quel qualcosa di incommensurabile che, come diceva Marx, non consiste nella somma del plus-lavoro di due o più lavoratori ma nel plus che deriva dal fatto che essi lavorano insieme (il plus, insomma, che sia oltre la somma)” (p. 289)
La citazione più lunga è quella di un passo di Antonio Negri tratta dal suo contributo al libro a cura di Matteo Pasquinelli: Gli algoritmi del capitale dove Negri dichiara il bisogno di specificare quanto comune sta in ogni connessione tecnologica, sviluppando un approfondimento specifico dell’antropologia produttiva (Negri, p. 86). E dove si teorizza di una possibile “moneta del comune”. Quello che mi sembra interessante è la coscienza che si ha nel fatto che la Macchina Capitale odierna è una macchina informatica, una macchina algoritmica, non soltanto perché la produzione è globalmente informatizzata, ma anche perché il mondo sociale informatico è esso stesso riorganizzato in termini automatici e secondo nuovi criteri della divisione del lavoro e nella gestione dello stesso, ma anche governato da nuovi parametri gerarchici della società. Nel momento in cui la produzione si generalizza socialmente – attraverso il lavoro cognitivo, attraverso il sapere sociale, l’informatizzazione rimane sì il capitale-fisso più pregiato del capitalismo ma l’automazione pervasiva sia all’interno dei luoghi della produzione sia nell’attività sociale dei produttori, diviene il modello dell’organizzazione capitalista tutta “che piega a sé sia l’informatica – facendone un utensile – sia la società informatizzata, tentando di farne la protesi macchinica del comando produttivo” (Ibidem). Per poi proseguire poco più avanti, non più commentato da Pascucci:
Ora, lo stesso schema che conduce verso l’estrazione/sfruttamento del lavoro sociale nella sua massima espressione, ci fa lì riconoscere il denaro – denaro misura, denaro gerarchia, denaro piano. Ma questa astrazione monetaria, in quanto risultato tendenziale del divenire egemone del capitale finanziario, allude alla potenzialità di forme di resistenza e di sovversione allo stesso altissimo livello. È su questo terreno che il programma comunista per il futuro post-capitalista va elaborato, non solo proponendo la riappropriazione proletaria della ricchezza ma costruendone la capacità egemonica – lavorando cioè sia a quel comune che sta alla base della più alta estrazione-astrazione del valore del lavoro quanto della sua universale traduzione in denaro. Questo significa oggi “moneta del comune”.
Quello che Negri e (per silenzio assenso) Pascucci intravedono come programma per il futuro post capitalista si potrebbe però usare da subito, al limite come semplice strumento concettuale che mostri questa rivelazione della moneta ogni qualvolta il capitale esprima la sua insaziabilità nei confronti del bene comune. La capacità cioè, in estremi, di re-inscrivere gran parte della produzione della macchina algoritmica al bene comune da cui proviene.
Margherita Pascucci, Macchina Capitale. Genesi e struttura dello sfruttamento, Ombre corte, Verona 2022, pp. 491, € 29.00
Gilberto Pierazzuoli
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