La rivoluzione è il ponte

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Per vari motivi ci troviamo all’interno del passaggio tra due mondi. Certamente l’era digitale, espressa in maniera compiuta dal modo di produzione capitalista che ne marca il carattere, è foriera di un’altra organizzazione del mondo, del procedere di un altro mondo del quale noi siamo sia i/le testimoni, sia gli attori/attrici direttamente interessati, in quanto mandanti o vittime della trasformazione. Una trasformazione che avviene in contemporanea con un’altra. La catastrofe incombente che è sia di carattere ambientale sia di carattere sociale. Il tratto che accomuna questi due eventi che si incrociano e si spalleggiano è la cosmogonia della tecnica, ben rappresentata dalla mitologia del progresso. Abitiamo la soglia di questo passaggio. La figura retorica che l’espressione “stare sul bordo dell’abisso” tenta di spiegare, non è in questo caso appropriata, non tanto perché descriverebbe qualcosa che si manifesterebbe in altro modo, ma perché non si tratta di un bordo, di una linea, ma appunto di una soglia, di un limes. La soglia è un luogo. Allora bisogna trasformare questa soglia in un ponte. In questo caso un ponte sull’abisso. La fine di un mondo vista dal punto di osservazione di chi, accorgendosi della fine, ne osserva l’accadere, ma annuncia, prefigura, nello stesso tempo, l’avvento di un altro mondo. Questo osservatore privilegiato o semplicemente colui che rimane involontariamente coinvolto nel luogo particolare dal quale si può osservare l’accadere della catastrofe, diviene infatti, suo malgrado, soggetto oracolare. Sono coloro che possono gettare uno sguardo sull’altra sponda dell’abisso; che possono, dalla soglia, realizzare quel ponte. Ma non per essere traghettatə dall’altra parte, ma per trasferirvi una qualche specie di eredità. È il meccanismo della tradizione che consiste nella costruzione di ponti di solidarietà tra le generazioni (cfr. qui e qui). Stare sulla soglia significa allora saper costruire un filtro attraverso il quale la “tradizione” si possa trasmettere. Attraverso il quale passino dall’altra parte dei patterns culturali da poter annodare con le creazioni mitopoietiche e cosmogoniche attraverso le quali si costruirà un mondo a venire. Un mondo che sia, in questo modo, il figlio della catastrofe. È una narrazione; è la voce dei/delle profetə. Il profeta è un traghettatore. La mitopoiesi dell’altro mondo potrà allora essere alimentata da un qualche lascito di questo.

È un’estetica che distende i suoi canoni. Qualcosa che nutrirà la morfogenesi di un nuovo mondo. Un’estetica è una forma particolare di etica, di contratto sociale. È un processo intersoggettivo. È tutto quanto nasce dall’incontro con l’altrə. E dal cui riconoscimento nasce il desiderio della conservazione, della propria e altrui riproduzione. Il conatus spinoziano. Nodo da cui si diparte la dinamica servo signore che segna l’incontro originario con l’altrə. Ma non ci interessano i ruoli, chi è e cosa fa il servo o il signore, ci interessa la relazione. È il desiderio, il desiderio che tu mi desideri (qui), che dà allora il primato generativo all’estetica sull’etica e che rovescia la filiazione: un’estetica dalla quale si genera un’etica. Il mondo è in sé un caosmo – diceva Guattari. Un’esuberanza caotica dalla quale estraiamo cose che sono tali nel momento in cui ci relazioniamo con esse, condividendole con l’altrə. È un agire di concerto. È un mettere in ordine da parte di un soggetto plurale secondo dei criteri condivisi che sono inizialmente soltanto estetici perché mossi dal desiderio che si genera dall’incontro con l’altrə. Ogni atto estrattivo è allora un gesto estetico che nella sua ripetizione costruisce un’etica. Oltre l’abisso, oltre la catastrofe c’è un nuovo mondo da costruire. Un mondo che qualcuno sicuramente costruirà indipendente dalla qualità degli esiti ai quali si approderà. Indipendentemente dal lascito che potremmo offrire. Rimane un possibile: questo lascito non sarà certamente qualcosa in continuità col vecchio mondo, ma qualcosa che si relazionava in termini oppositivi con lo stesso.

Si dice che è più facile immaginarsi la fine del mondo che quella del capitalismo. Forse è questo il momento nel quale i due eventi possono essere contemporanei. Il profeta traghettatore è allora una figura che alimenta la possibilità che dal caos che la catastrofe provoca, si possano costruire, all’interno di una morfogenesi estetica ed etica, le trame discorsive capaci di innervare un altro mondo. Nel momento in cui la catastrofe distrugge i monumenti culturali di un mondo che si è rivelato tossico, si lascia spazio alla possibilità che si possano generare nuovi assembramenti.

 

Il profeta lascia tracce. Tracce della sua dismissione dal quel mondo. Bisogna sapersi guardare intorno per riempire il paniere di questi possibili lasciti. Le tracce di una critica che ha saputo andare al di là dalla semplice denuncia. Un buon lascito sono allora le tracce di chi si era tirato fuori. Di che aveva detto la frase di Bartleby, lo scrivano: “Preferirei di no” (I would prefer not to). Di chi si era dimesso: di coloro che avevano disertato preparando l’esodo. Sì, perché dimettersi non è una forma di semplice resa. Bisogna cercare e costruire alternative; lavorare nelle pieghe, negli interstizi del vecchio mondo. “Disertare significa modificare le condizioni entro cui il conflitto si svolge, anziché subirle. E la costruzione positiva di uno scenario favorevole esige più intraprendenza che non lo scontro a condizioni prefissate. Un ‘fare’ affermativo qualifica la defezione, imprimendole un gusto sensuale e operativo per il presente. […] Fuggendo si è obbligati a costruire diverse relazioni sociali e nuove forme di vita: ci vuole molto gusto per il presente e molta inventiva” (Virno 2002, pp. 181-184). Le forme di fuga, il rifiuto di partecipare, hanno infinite sfaccettature e campi di impiego. Le più semplici potrebbero essere quelle di disertare la polemica del giorno, rifiutarsi di nutrire la macchina con le nostre energie psichiche e fisiche. Al tempo della comunicazione, dell’infosfera, è allora sconnettersi dai media di massa. Usare la rete e tutte quegli spazi non occupati dal pensiero unico. Fare tesoro degli esercizi di esodo. Tessere relazioni non commerciali. Scoprire insieme alternative possibili. Provare a costruire alternative. Accumulare materiale da traghettare oltre la catastrofe.

In un mondo ormai al tramonto non c’è più spazio per la destituzione del potere. Rimangono soltanto questi esercizi di esodo. Oggi, la rivoluzione che mette fine al regime capitalista è quel ponte gettato tra due mondi. Quel ponte è oggi attraversato dallo sguardo profetico alimentato dalle tracce che possiamo ancora seminare disertando. Su quel ponte circoleranno così, flussi desideranti pronti a esercitare la loro influenza nella costruzione estetica ed etica di un nuovo mondo. Ma non per noi.

La rivoluzione è il ponte.

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Virno, Paolo
2002, Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica, ombre corte. Verona

Le immagini sono state generate da una Intelligenza Artificiale Text to Imagine su indicazioni verbali dell’autore

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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