Re, carcerati e marinai, il tatuaggio conquista l’occidente

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È dai tempi dei viaggi del capitano di Marina britannico James Cook in Polinesia, nella seconda metà del ‘700, che il tatuaggio ha esercitato un fascino ininterrotto in tutto l’occidente. Per tutto il XIX secolo ha rappresentato uno stigma di delinquenza, prostituzione, disordine mentale, criminalità, emarginazione in genere, come gli studiosi del tempo si affannavano a dimostrare. Tuttavia proprio nell’800 avvenne quella rivoluzione che fissò la pratica del tatuaggio come fenomeno diffuso, attribuendogli nuovi significati e nuove forme. I marinai di Cook esibivano i tatuaggi fatti dai nativi polinesiani, affascinando in patria le nuove classi di operai e lavoratori post rivoluzione industriale che frequentavano gli stessi luoghi di ritrovo e ambienti sociali dei marinai. A macchia d’olio, il tatuaggio si diffuse tra le classi più popolari e povere, finendo per indicare l’appartenenza a condizioni di disagio sociale. I tatuati, non a caso indicati come “segnati”, cioè portatori indelebili di segni, si facevano d’altro canto portatori di una voglia di trasgressione e di affermazione della libertà di agire sul proprio corpo, anche contro la generale disapprovazione. Alla messa all’indice della pratica del tatuaggio concorsero vari fattori, tra cui la condanna della chiesa che la vietava esplicitamente, come da indicazioni bibliche (vedi ad esempio il passo del Levitico 19:28 “Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio”) e la posizione della scienza ufficiale, soprattutto quella medica, che riteneva il tatuaggio fonte di infezioni e di cattiva educazione igienica. I libri che a fine ‘800 trattavano l’argomento erano, per citarne alcuni, quelli di Cesare Lombroso che, dopo estenuanti catalogazioni di disegni e simboli sulla pelle dei detenuti delle carceri in Italia, attribuiva ai tatuati le peggiori inclinazioni umane. Il tatuaggio era definito pratica “tribale”, “primitiva” e eseguita dunque solo dagli scarti di una società occidentale evoluta. Scrisse Lombroso nel suo “L’uomo delinquente” del 1876, che il tatuaggio riproduceva “le tendenze dell’uomo primitivo” e un “disprezzo del dolore tipico dei criminali”. Negli “Annali di Medicina Navale” del 1896 si legge “Come spiegare questa coincidenza del tatuaggio con la delinquenza del marinaio? Il tatuaggio, così frequente nei selvaggi, sarebbe principalmente l’effetto dello stato psichico più impressionabile, più infantile, per così dire, e quindi meno atto a resistere alle influenze esteriori”. E ancora “La criminalità e il tatuaggio si avvicendano perché sono entrambi fenomeni di debolezza psichica”. “Questa inferiorità psichica è confermata dal fatto che i marinai nevrotici, bisbetici, bislacchi, eccentrici, esagerati, epilettici forniscono un buon numero di tatuati”.

Nelle carceri il tatuaggio era largamente praticato, con una tecnica semplice ed elementare, a causa delle misure ristrettive. Dopo aver tracciato un disegno sulla pelle, veniva conficcata ripetutamente con un oggetto appuntito, applicandovi poi una sostanza colorante, che poteva essere nero fumo, polvere di muro affumicata, polvere di carbone e perfino carta bruciata. I disegni variavano dalle classiche catene spezzate a scritte di vendetta o d’amore, nomi di fidanzate o invocazioni religiose.

Dunque il tatuaggio era ritenuto cosa da delinquenti, marinai, avventurieri, prostitute.

Ma accadde qualcosa, ancora una volta in Inghilterra, che segnò una rivoluzione dei costumi e della mentalità, che portò allo sdoganamento e addirittura alla consacrazione del tatuaggio. All’età di circa vent’anni, nel 1862, durante una visita in Terrasanta, il principe Albert, figlio della Regina Vittoria e futuro re britannico col nome di Edoardo VII, si fece tatuare una croce. Questo gesto ebbe un impatto fragoroso sulla società britannica e occidentale in generale. Poteva tuttavia essere interpretato come un segno di devozione religiosa, una testimonianza di pellegrinaggio. Ma nel 1881 i due figli del principe, Alberto Vittorio e Giorgio (il futuro re Giorgio V), imbarcati nell’equipaggio della Marina britannica, si fecero tatuare durante una visita in Giappone. A Tokyo il principe Giorgio incontrò uno dei più bravi tatuatori giapponesi, che realizzò “un grande drago blu e rosso che si contorceva lungo tutto il braccio”, come scrisse sul suo diario, impiegando per l’impresa circa 3 ore, con l’utilizzo di aghi molto sottili e senza procurargli dolore. A Kyoto completò l’opera con una tigre tatuata sull’altro braccio. Il fratello scelse la figura di una gru danzante sulla parte alta del braccio.

La famiglia reale britannica aprì così la strada verso quel cambiamento di costume che rese addirittura affascinante il tatuaggio, fino ad allora condannato. I membri della famiglia reale portavano segni visibili di opere artistiche impresse sulla loro pelle, realizzate in esotici viaggi in paesi stranieri. La novità traghettata da tanto blasone provocò in tempi brevi un rovesciamento di significato del tatuaggio, da stigma negativo a emblema di status sociale. Così nascono le mode, e il tatuaggio trovò l’apprezzamento generale tra aristocratici, nobili e borghesi, senza incontrare più sbarramenti ideologici. Nel 1906 il medico De Blasi dedicò al tatuaggio una pubblicazione, nella quale si legge “ci tocca d’assistere all’attuale apoteosi del tatuaggio. Esso ha disertato i reclusorii, gli ergastoli ed i ditterii. Esso si è nobilitato, aristocratizzato, blasonato. Come un ciclista in volata, esso ha conquistate le alture sociali. E dall’ Inghilterra esso ci arriva come la nota saliente del giorno. I Petronii Arbitri delle eleganze granbrittanne l’hanno adottato e legittimato. Così il tatuaggio costituisce pel quarto d’ora “l’ultimo grido” della flemmatica fashion d’oltre Manica”. Il suo tono era ironico e vagamente critico, tuttavia il tatuaggio era diventato materia di studio sociale. La moda era talmente dilagata da attraversare perfino le barriere di genere. Le donne italiane, spinte dalle ragazze inglesi, portavano disegni, scritte sulla loro pelle, con naturalezza e fantasia. La rivoluzione era finalmente iniziata.

 

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Maria Gloria Roselli

Curatrice del Museo di Antropologia ed Etnologia dell'Università di Firenze. L'oggetto delle sue ricerche privilegia la storia delle collezioni e dei collezionisti, in modo particolare in relazione con l'Oriente. Si occupa di conservazione, riordino e valorizzazione del patrimonio fotografico storico del Museo, svolgendo ricerche su tecniche e storia dell'archivio del Museo.

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