Sudan: la peggiore crisi umanitaria del mondo, nell’indifferenza

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Da più di due anni la guerra e le sue vittime è rientrata in maniera prepotente tra noi, parlo di noi europei. Abbiamo vissuto il privilegio di 70 anni di pace e per generazioni la possibilità di una nuova guerra che ci coinvolgesse direttamente era, per la maggioranza di noi, fuori da ogni scenario, anche immaginario.

Con il conflitto russo-ucraino prima e quello palestino-israeliano più recentemente, l’ondata emotiva è, ed è stata, fortissima. Non si parla d’altro, i media tutti snocciolano dati, abbiamo aggiornamenti giornalieri sul numero delle vittime, sulle violenze, nessun particolare ci viene risparmiato.

In questo contesto mi ha molto colpito, qualche mese fa, leggere la testimonianza di un insegnate di italiano in una scuola per adulti migranti: nella sua classe un giovane uomo africano si mostrava stupito della fortissima partecipazione, anche emotiva, che la guerra in Ucraina stava scatenando e sosteneva che gli europei fossero forse in grado di commuoversi solo per le vittime bianche, meglio se bionde e con occhi chiari, e rimuovevano con grande facilità le stragi compiute, spesso proprio da europei, in Africa, con vittime nere, faceva riferimento in particolare alla deportazione di milioni di africani neri durante il periodo della schiavitù.

Mi è tornato in mente questa testimonianza leggendo un articolo di Johnathan Freedland sul Guardian pochi giorni fa : “Una guerra sta uccidendo decine di migliaia di persone, ma non sta ricevendo l’attenzione che merita. Le ragioni sono complesse come il conflitto stesso. Quando abbiamo detto che ‘Black Lives Matter’ non intendevamo dire veramente questo. Questo è chiaro ora, poiché il mondo guarda ad una guerra che sta uccidendo decine di migliaia di persone, che ne ha reso sfollate più di 10 milioni e che minaccia di inghiottirne altri 13 milioni per carestia, e dà a malapena uno sguardo. La maggior parte di questi sono vite nere e non potrebbe essere più evidente che, in un mondo indifferente, non contano affatto. Non essere troppo duro con te stesso se non hai ancora indovinato di quale conflitto, e progetto di pulizia etnica, sto parlando. Con alcune onorevoli eccezioni, è a malapena coperto in TV, alla radio o sui giornali. La maggior parte dei politici non lo menziona mai. Non ci sono manifestazioni di massa per le strade, nessun hashtag sui social media. La guerra in Sudan è fuori dalla nostra vista e dai nostri pensieri, per ragioni che dicono un po’ sull’Africa e molto di più su tutti gli altri. Il conflitto è infuriato dall’aprile del 2023, quindi c’è stato tutto il tempo per notarlo. Non manca neppure la scala epica. Al contrario, le organizzazioni umanitarie dicono che il Sudan deve affrontare “la peggiore crisi umanitaria del mondo”. La sofferenza non è complicata o astratta, ma straziante, piena di un orrore che normalmente si impadronisce dell’attenzione globale.”

Tutto questo riporta alla nostra attenzione non solo la tragedia del popolo sudanese, ma anche lo stato e la funzione dell’informazione nel libero occidente, nel periodo storico in cui siamo maggiormente in grado di accedere ad ogni tipo di notizia. Siamo letteralmente invasi dalle notizie, da innumerevoli fonti, ma il racconto, pur con qualche lodevole eccezione e qualche diversità di accento, non cambia.

Sono vent’anni che il Sudan è sconvolto da una guerra civile sanguinosa, se ne è parlato anni fa e ci sono state manifestazioni, testimonial famosi si sono spesi, ma ancora oggi niente sembra cambiato, il genocidio è tuttora in corso, ma non se ne parla e non si scende in piazza.

A settembre è apparso sul New York Times un reportage di Nicholas Kristof che riporta la testimonianza di Maryam Suleiman, una tra i milioni di sudanesi che hanno cercato rifugio nel vicino Ciad; “…ha raccontato…del giorno in cui le Rapid Support Forces, la versione rinominata del Janjaweed – la milizia araba colpevole del massacro del Darfur due decenni fa – hanno fatto irruzione nel suo villaggio. Gli armati hanno messo in fila gli uomini e i ragazzi mentre il loro leader dichiarava: “Non vogliamo vedere nessun nero. Non vogliamo nemmeno vedere i sacchetti neri della spazzatura”. Poi ha sparato prontamente a un asino nero, chiarendo le sue intenzioni. Dopo di che, gli uomini della RSF hanno deciso di passare per le armi tutti i maschi neri di età superiore ai 10 anni, compresi i cinque fratelli di Maryam, e anche alcuni più giovani. Un bambino di un giorno è stato gettato a terra e ucciso, e un bambinetto affogato in una pozza. E poi “hanno stuprato molte, molte ragazze”. Li hanno chiamati “schiavi” e hanno detto loro: “Non c’è posto per voi neri in Sudan”.

Come è possibile che non si parli di tutto questo? Come può essere che sembri che con tutto quello che accade più vicino a noi non ci sia posto per la catastrofe umanitaria più terribile della storia recente? Perché centinaia di articoli, aperture di Tg, video, podcast su Ucraina e Palestina e praticamente nemmeno una riga sul Sudan? E come mai attivisti e progressisti che hanno riempito le piazze di tutto il mondo per l’omicidio di George Floyd non si mobilitano per la morte di decine di migliaia di neri, per l’esodo forzato di milioni di neri dal loro paese?

Freedland tenta una risposta, sia pur parziale “… questa è una guerra in Africa. Certamente non dichiarato, e forse inconsapevole, c’è il pensiero che questo è proprio ciò che accade in un luogo che per secoli è esistito nell’immaginario occidentale come “il continente Nero”. Nel silenzio dell’Occidente, c’è un sussurro di quello che, in un contesto diverso, George W. Bush una volta chiamava “il morbido bigottismo delle basse aspettative”. Come se la maggioranza dei notiziari e dei ministri degli Esteri, stessero dicendo tranquillamente: “È l’Africa. Che altro ti aspetti?”. Potrebbe essere che il progressista occidentale non sappia bene per chi tifare? Sia la RSF che le forze armate sudanesi, o SAF, sono colpevoli di crimini spaventosi e non esiste una struttura narrativa semplice, confortante e familiare in cui questo conflitto possa essere inserito. Molti a sinistra oggi hanno organizzato il mondo, passato e presente, in due categorie ordinate. Ci sono gli oppressi e ci sono gli oppressori, ci sono i colonizzati e i colonizzatori. Con alcuni conflitti può sembrare facile attribuire i ruoli, anche se erroneamente, e tifare o fischiare di conseguenza. Non devi nemmeno pensare. Ma cosa fare quando il bene e il male non sono tagliati nettamente, quando un conflitto non è, né letteralmente né metaforicamente, nero contro bianco?

Di fronte a quell’enigma, è più facile solo dichiarare il tutto troppo complicato e guardare dall’altra parte. Molti a sinistra lo hanno fatto durante la guerra civile in Siria. Alcuni si sono affidati alla loro guida ben consumata e a colpo d’occhio ai conflitti internazionali – supporto a qualsiasi parte si opponga agli Stati Uniti – ma questo li ha condotti in un luogo imbarazzante. Altri hanno preferito solo non prendere posizione, anche se più di 600.000 persone sono state uccise. È un’ulteriore prova che, quando si tratta di vedere il mondo, il crudo “anti-colonialismo” è una lente terribilmente offuscata. Funziona solo se pensi che il nostro pianeta sia diviso in buoni e cattivi, piuttosto che capire che alcuni scontri mettono solo due cause l’una contro l’altra, mentre altre implicano una collisione di due varietà di malvagità, ognuna delle quali afferma di agire in nome degli oppressi. Il popolo sudanese non dovrebbe scusarsi per il fatto che la loro tragedia non si adatta alla versione del libro di fiabe della moralità che così tanti sembrano desiderare. Siamo noi che dovremmo scusarci con loro, per averli ignorati nella loro disperazione – e per aver fatto finta che ce ne importasse.”

La tragedia del Sudan ci interroga, o almeno dovrebbe, su quanto siamo tutti ancora vittime o portatori di una visione eurocentrica e colonialista, quanto inconsapevoli o felici fruitori del privilegio bianco che porta, per fare un esempio a noi vicino, a discutere sulle migrazioni essenzialmente in termini di accettazione o regolamentazione, a pensare al mondo come nostro, un mondo in cui gli “altri” al massimo possono essere tollerati come ospiti, se si comportano bene, se si “integrano”, se accettano di conformarsi. Tutto questo, e non ci piace ammetterlo, ha un nome: razzismo.

 

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