Sull’antico e irrisolto fenomeno della povertà sociologi e economisti spendono ancora oggi molte parole: aggiornano indagini, esibiscono dati, statistiche, grafici, senza peraltro che la politica li utilizzi per ridurre un problema drammaticamente crescente a livello globale. Invece, la riduzione della povertà richiederebbe un radicale cambiamento sociale, culturale e politico teso al raggiungimento di una reale uguaglianza, e non lo sbandierato aumento del cosiddetto “progresso economico”, che è sempre a vantaggio dei pochi.
Ancora oggi, più che la povertà si colpiscono e si colpevolizzano le persone povere. Sono loro, il grande rimosso, da nascondere alla vista e da cancellare – finché è possibile – dall’immaginario pubblico. Vecchi e nuovi poveri, sottoccupati, disoccupati, senza dimora, e tutti i soggetti relegati ai margini della società ancora oggi sono segnati da un marchio antico: la colpa di non avercela fatta, di non essere riusciti ad affermarsi nella scala sociale.
L’atteggiamento che la cultura occidentale ha riservato alla povertà è da sempre ambivalente, oscillando tra l’esaltazione della ricchezza e la sua condanna. Ma oggi siamo decisamente in una fase in cui il pensiero dominante ha fatto proprio il primo dei due atteggiamenti.
Come ci siamo arrivati? E’ sempre stato così?
In una sintesi ardita, ma qui inevitabile, proviamo a seguire le trasformazioni del concetto di povertà, toccando ovviamente solo gli snodi storici principali. E sapendo bene che in ogni epoca ci sono state voci discordanti rispetto al discorso pubblico dominante, che però è quello che in questo caso ci interessa. Perché è quello che determina le condizioni materiali, e non solo, delle nostre esistenze. Procediamo con ordine.
Nel pensiero della Grecia antica, che è a fondamento della cultura occidentale, la ricchezza è vista in modo positivo come una risorsa per aumentare lo status sociale, ottenere successi sugli avversari, in guerra come in politica, e la povertà è poco considerata, relegata ai margini del discorso pubblico, come dimostrano i poemi omerici. Ma già con Esiodo, nel VII secolo a.c., si assiste a un cambiamento di prospettiva, perché ora la ricchezza non è commisurata solo alla proprietà terriera, quindi all’aristocrazia, ma anche agli improvvisi guadagni derivanti dal commercio e dai traffici marittimi, e comincia a ispirare una certa diffidenza. E infatti nei secoli seguenti per tutta l’età ellenistica si contrappongono da un lato la valorizzazione della ricchezza come giusta aspirazione individuale, e dall’altro l’ideologia degli aristocratici, che considerano la ricchezza in termini negativi, perché facilita l’ascesa di individui intraprendenti e provenienti dal popolo.
Articolato – quando non ambivalente – è anche l’atteggiamento che la cultura cristiana ha riservato alla povertà, anche prima che l’etica protestante ravvisasse nell’affermazione personale e nella conseguente ricchezza un segnale evidente della grazia divina. Se, infatti, nell’Antico Testamento ci si imbatte in chiare attestazioni sul valore punitivo della miseria, vero e proprio castigo mandato da Dio per colpire una condotta peccaminosa (Pro. 6, 11; 23, 21, oppure Ps. 112, 1-3, ), con i Vangeli il giudizio tende a ribaltarsi, facendo degli umili i titolari assoluti dell’amore divino (Lc. 1, 48 e 52-53; Lc. 6, 20).
Come ci si rapportava alla povertà nel Medioevo? Basti citare la ricerca di San Francesco, e del suo ordine, di “madonna Povertà”, e la convinzione secondo cui privarsi dei beni terreni avvicina il fedele all’esperienza di Gesù. Accumulare ricchezza era considerato un peccato, soprattutto a livello individuale, e per poter salvare l’anima chi aveva più di quanto necessario doveva mettere a disposizione il surplus per i più bisognosi attraverso opere di carità. Però si credeva che fosse necessario distinguere tra il povero “buono e vero” – facilmente riconoscibile, umile, disgraziato e verso il quale era possibile compiere opere di bene – e il povero “cattivo e falso” – asociale, vagabondo, ribelle, peccaminoso, su cui invece si scagliava la mano repressiva della giustizia. Tanto più quando i poveri risultavano estranei alla composizione sociale normativa, come girovaghi, ribelli, contestatori: allora la condanna era spietata.
A partire dal tardo Medioevo e Rinascimento il ricco e potente non lo era più solo per nascita, perché emerge la figura del mercante, specialmente urbano, che si arricchisce grazie alle sue abilità “imprenditoriali”. E il nuovo legame con la moneta suscita diversi problemi morali: come si poteva accumulare ricchezze senza cadere nella tentazione dell’usura? Come si riusciva a sconfiggere il peccato dell’avarizia? Come era possibile insomma per i ricchi ambire alla salvezza dell’anima? La risposta rimane pressoché inalterata per secoli: ci si poteva salvare attraverso atti di misericordia e di carità nei confronti dei più bisognosi, con donazioni, lasciti ed elemosine. Già a partire dal XII secolo, si era andati verso una istituzionalizzazione delle opere caritative: inizialmente era la Chiesa che organizzava conventi, ospedali e confraternite dedite alla raccolta e alla distribuzione delle elemosine. Ma presto anche la comunità laica, le magistrature comunali e le signorie, si impegnarono ad organizzare reti assistenziali, che potessero sostenere i ceti subalterni o impoveriti e che potessero al contempo arginare problemi di ordine pubblico, in un momento in cui i primi sintomi della crisi e delle ribellioni del XIV secolo iniziavano a manifestarsi. In sostanza la povertà non poteva essere eliminata, ma i ricchi potevano mondarsi la coscienza con l’elemosina, e le istituzioni tacitare i ribelli con elargizioni di vario genere.
Ma è nel ‘700, con la nascita della società borghese che si consolida l’idea della povertà come colpa, e il successo personale si attesta come il segno tangibile del valore della persona e della ricompensa divina: siamo nella neonata cultura mercantile, che diventerà poi società borghese nell’800 e poi capitalista. Noi discendiamo direttamente da lì. Da quella società mercantile che nasce nell’Inghilterra del Settecento, con l’inizio della produzione su larga scala nell’industria e nell’agricoltura, l’espansione delle proprietà private, lo sviluppo del sistema di fabbrica e la nascita del proletariato. Le politiche sociali mercantiliste avevano come valori assoluti il lavoro e la produttività. Farò come unico esempio letterario il romanzo di Daniel Defoe (considerato il primo romanzo realista della letteratura europea) Robinson Crusoe, il cui protagonista, primo homo oeconomicus della letteratura occidentale, dal nulla- l’isola deserta- attraverso il proprio lavoro, con impegno e fatica, costruisce grandi ricchezze.
Per tutto il secolo seguente, l’800, l’ideologia dominante ha tra i suoi principi proprio la povertà come colpa, come dimostra il Poor Law Reform Act del 1834, secondo il quale la povertà era considerata una conseguenza delle deficienze morali dell’individuo, e di conseguenza attribuiva a quanti fossero in teoria idonei al lavoro la piena responsabilità della propria condizione. Il grande romanzo realista del tempo, che pone i “miserabili” al centro della narrazione, ci dice che l’impegno virtuoso può e deve riscattare il singolo da ogni condizione disagiata, perciò, anche i cosiddetti romanzi sociali propongono una prospettiva pietistica, che non mette in discussione le dinamiche sociali e i rapporti di classe. In Letteratura e vita nazionale Antonio Gramsci, riflettendo sul rapporto fra gli intellettuali italiani ottocenteschi e la marginalità, si espresse in termini durissimi “Nell’intellettuale italiano l’espressione di “umili” indica un rapporto di protezione paternalistica …come il rapporto tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, o come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia…”.
La fine del primo conflitto mondiale segna, è noto, un maggior intervento dello Stato nell’economia e nell’assistenza. Con la ‘grande depressione’ degli anni Trenta del Novecento, che determina una massiccia disoccupazione tra il ceto medio, nasce il welfare, e si individuano le cause della disoccupazione e della povertà in una disfunzione del sistema economico ideando una serie di misure atte a prevenirla. Ma questi programmi assistenziali, che comunque non affrontano il problema alle radici, sono messi in discussione dal sistema del capitale, e oggi, con l’aumento del divario tra ricchi e poveri, i pregiudizi verso le persone povere sono più forti che mai.
Il sistema economico attuale, tutto centrato sul profitto, si nutre e si alimenta di debito. Non a caso Debito e colpa è il titolo di un libro interessante che Elettra Stimilli ha dedicato alla centralità dell’indebitamento planetario nella più recente fase del capitalismo contemporaneo. Mettendo in relazione i due concetti (del resto, il vocabolo tedesco Schuld significa “colpa”, ma anche “debito”) Stimilli coglie forse uno dei nodi più importanti della riflessione delle attuali pratiche antagoniste: quel Movimento contro il debito nato più di dieci anni fa che attribuisce la responsabilità dell’ingiustizia sociale a precisi meccanismi economici e non al singolo individuo.
Ma la povertà si può sconfiggere? Si potrebbe. Con efficaci strategie a livello globale prima ancora che locale, ma occorrerebbe la volontà politica di attuarle. Che, come è evidente, non c’è. Allora, che fare? Consapevoli della complessità di un fenomeno che il capitale non ha mai voluto – ma potrei anche dire potuto, visto che sul profitto e sul conseguente sfruttamento si regge – affrontare alla radice, non dobbiamo rinunciare a mettere in atto un insieme di pratiche dal basso. E oltre alle tante azioni concrete di contrasto alle disuguaglianze, è essenziale impegnarci anche su un piano più profondo: contrastare i pregiudizi che da tempi lontani hanno accompagnato la condizione di chi, senza colpa, si trova escluso da una società che premia il profitto e, il presunto “merito” di chi sa come arricchirsi.
Il testo è la rielaborazione dell’intervento tenuto il 24 ottobre alla cena in sostegno del giornale di strada Fuori Binario, alla casa del popolo di Quinto Alto.
Ornella De Zordo
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