Modelli di sviluppo. La macchina del capitale, oggi

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Per una Critica del Capitalismo Digitale – parte XIX

Il funzionamento dei dispositivi, al di là della loro implementazione nell’ambito digitale, ha un che di algoritmico. C’è uno scopo che fa da query, da interrogazione in input, delle procedure e infine dei risultati. Anche il Capitalismo ha un che di automatico con degli schemi di riferimento e degli scopi ben definiti. Ma si dovrebbe a volte parlare di capitalismi, perché il capitalismo non è così monolitico. In ogni ambito della produzione o, più in generale, in ogni ambito dell’accumulazione, ogni capitalismo svolge in automatico il proprio compito: la ricerca del profitto. La controparte, gli elementi che ostacolano questo processo, è abbastanza variegata e va dai sottoposti, all’insieme dei cittadini depositari dei beni comuni, ma anche ad altri tipi di produzione, altri capitalismi, che possono confliggere incrociandosi. Il capitalismo si dovrebbe infatti basare sulla concorrenza, con il risultato che ogni sua implementazione si basa su modelli di sviluppo potenzialmente in conflitto tra di loro.

Il Capitalismo, avendo più strade per perseguire il profitto, non ha un bene comune, non ha un unico regista e quindi nemmeno una forma di azione data una volta per tutte. Il dispositivo capitalista ha una sua intelligenza, misto tra artificiale e umana che opera in termini collaborativi, che mette in campo strategie adattandole al contesto storico, sociale ed epocale. Le riduzioni dei margini di profitto dell’industria manifatturiera, il suo periodico cadere in crisi da sovrapproduzione, sposta l’intervento del capitale in altri ambiti: la rendita, la finanziarizzazione, i commons. La fase attuale che è segnata dalla perdita di centralità della fabbrica e dal proliferare di altre forme di estrazione del valore, non è un disegno omogeneo e strategicamente ponderato, semmai gerarchizzato, tanto che tende a concentrare i profitti verso i piani alti della piramide sociale, quelli dei super ricchi, con la conseguenza di limitare ancora di più lo sgocciolamento della ricchezza verso il basso. Viene premiata la rendita e quel tipo di reddito che però non riesce a far da leva del consumo, espandendo di fatto quelle forme e quei modi che creano ricchezza improduttiva.

Anche lo sviluppo non ha una visione e una percezione omogenea del suo orizzonte. Il suo modello basato sull’informazione e i Big Data, è asfittico quanto quello manifatturiero. Grossa parte degli introiti dello stesso provengono dalla pubblicità o – per quanto invece riguarda la grossa parte delle piattaforme che agevolano soltanto e in modo quasi monopolistico l’incontro tra domanda e offerta – dal prelievo pressoché parassitario di una quota su ogni transazione. La terza via, la privatizzazione dello stato sociale, è il risultato dell’operazione messa in atto dal capitale nel confronto dei beni comuni ma il cui risultato incide poi pesantemente nelle economie della gran massa dei lavoratori (dipendenti o “autonomi” che siano), con la conseguenza di avere profondamente intaccato la capacità di acquisto e quindi i consumi della gran massa della popolazione.

 

In questo gioco di tutti contro tutti scompare ogni visione prospettica. Ma non è un problema soltanto del crollo delle ideologie che sfocia nel prendere atto della mancanza di alternative, del fatto che ogni possibile alternativa non ha fondamento, sono anche le costruzioni concorrenziali del capitale e le dialettiche con chi gli si oppone che portano alla difficoltà di avere una visione coerente. Ecco allora che anche la lotta di classe diventa una lotta per la sopravvivenza nella quale non si fanno alleanze di lungo corso; così come la concorrenza a livello capitalistico è costretta a giocarsi le proprie carte non soltanto nei confronti dei diretti competitori, ma anche nei confronti di altri modi di estrarre valore. Qui il rapporto con la tecnica è determinante. Lo strumento tecnico è l’innovazione produttiva che ha sempre permeato il modo di produzione capitalistico e che adesso lo può accompagnare anche nelle sue trasformazioni. Ecco il trading online e quello automatico applicato alla finanza; la profilazione dei big data legata alla pubblicità; la predittività degli stessi legata alla domotica, all’internet delle cose che sono al servizio delle economie miste tra produzioni materiali e immateriali. Di nuovo i dati al servizio della medicina e le piattaforme, cavalli di troia o enclosure per l’appropriazione/privatizzazione della scuola. Dal registro elettronico alle piattaforme per la DAD (didattica a distanza), che non sono semplici strumenti neutri, ma che attraverso la raccolta dati e le valutazioni creano rating e ranking sia degli studenti che degli insegnanti, condizionando la didattica sia dal punto di vista degli obiettivi che da quello dei contenuti. La scuola che da laboratorio di trasmissione e creazione della conoscenza diviene scuola azienda, si trasforma cioè in fabbrica delle competenze asservite ai bisogni produttivi e agli interessi del profitto.

Non c’è nessun Grande Fratello, gli interessi sono frammentati e spesso in competizione tanto che il motore della lotta di classe agisce non soltanto verso le classi dominanti, ma in ogni direzione, anche verso il basso reificando il concetto della lotta tra poveri. Ma anche i ricchi fanno la lotta di classe e la fanno anche nei confronti di altri ricchi. Non c’è nessun interesse comune che possa rallentare o pacare gli scontri. Non c’è cambiamento climatico che tenga, si paventa una situazione (la gated society) che si può già intravedere nelle megalopoli del terzo mondo dove pochi ricchi vivono asserragliati in quartieri protetti da mura e guardie, mentre il resto della popolazione abita le baraccopoli infinite di una periferia che si riproduce e si espande per contenere i dannati della terra.

 

Si paventa una situazione da dopo la catastrofe, dove i pochi luoghi relativamente più ospitali accolgono le elite privilegiate mentre la gran massa dei sopravvissuti popolano un ambiente avvelenato e svuotato di ogni risorsa. Una dimensione da Day after, tipo Mad Max o, per restare in ambito cinematografico, in un ambiente del tipo di quello preconizzato nel film “In Time” di Andrew Niccol dove il tempo è la moneta corrente, perché ogni umano vive e cresce sino a venticinque anni, poi ha un anno ulteriore di vita alla scadenza del quale la vita cessa se non carica altro tempo nel contatore che ognuno ha nel polso. Un universo distopico già però preconizzato dalle attuali tendenze. Un luogo dove le differenze sociali sono scandite da cerchie di mura concentriche dove al centro, nel luogo più protetto, vivono i super ricchi che hanno a disposizione così tanto tempo da essere praticamente immortali, mentre nella cerchia esterna si combatte giorno per giorno per acquisire un po’ di tempo di vita in più. Vita che le persone non riescono a vivere alle prese con gli aumenti costanti del prezzo-tempo che li subordina realizzando e materializzando, facendola diventare esplicita, la situazione per la quale si lavora per vivere che si esaurisce in un vivere per lavorare. Perché in “In Time” anche il salario è tempo, tempo di vita, così da realizzare in toto il sogno capitalista di appropriarsi non soltanto della forza lavoro, ma della vita intera dei suoi sottoposti.

Non c’è un Grande Fratello, ma c’è quello che ho chiamato l’algoritmo di scopo, il meta algoritmo di riferimento alla base di ogni calcolo, di ogni computazione, di ogni associazione. Il pregiudizio dei pregiudizi, il bias nascosto a fondamento di tutto l’universo informatico-digitale, che poi non è nient’altro che il profitto. L’oggetto perseguito, la ragione di ogni transazione, la ragione ultima. Ma non lo dico per eccesso di astio classista, a partire cioè da un altro tipo di pregiudizio, lo dice esso stesso. Dice che non c’è alternativa, ma non al sistema democratico parlamentare, ma al Capitalismo, questo è quanto.

Benjamin Bratton parla di Stack:

“Invece di vedere le varie specie di tecnologie computazionali contemporanee come tanti generi diversi di macchine, che si sviluppano da sole, dovremmo invece vederle come il corpo di una megastruttura accidentale. Forse queste parti si allineano, strato per strato, in qualcosa di non dissimile da uno Stack software e hardware vasto (se anche incompleto), pervasivo (se anche irregolare). Questo modello è di uno Stack che esiste e non esiste come tale: è una macchina che funge da schema, tanto quanto è uno schema di macchine.”

È questa la macchina del capitale, il fine primo che cerca anche di essere il fine ultimo, l’unico scopo. Una macchina opaca – Bratton parla di Black Stack – dissimulata, che lavora strato su strato, accumula e valorizza. Domina il flusso macchinico lavorando la lotta di classe attraverso i suoi innumerevoli ingranaggi. Una pila di algoritmi che l’algoritmo madre (genitore) regola al riparo dalle evidenze.

Si potrebbe aprire qui una possibilità, che il meta algoritmo di scopo, quello che persegue il profitto, in realtà non operi da solo e non sia la solitaria punta gerarchica della catena macchinica. La macchina patriarcale probabilmente non dipende del tutto da quella capitalista. La asseconda nel momento in cui nella composizione del salario, e quindi in tutto il processo di valorizzazione, non tiene conto del lavoro riproduttivo, ma si muove in forma indipendente quando scarica questo lavoro sulle spalle delle donne. Christine Delphy dice infatti che la società moderna è caratterizzata dalla coesistenza di due modi di produzione — capitalistico e patriarcale — e dunque da due sistemi di classe. Riconoscerne soltanto uno, quello capitalistico, e negare o attenuare gli antagonismi che sorgono sul terreno dello sfruttamento domestico significa contribuire a naturalizzare l’edificio della disuguaglianza “privata”

Se all’epoca del capitalismo fordista, tayloriano e analogico, gli spazi della produzione, riproduzione e cura, erano ben definiti, nella modernità digitale tutto si fa più nebuloso. C’era una volta la fabbrica, la scuola, la casa, la chiesa, la piazza, il bar, il circolo, il muretto, luoghi dove si espletavano le funzioni fondamentali della quotidianità umana. Adesso le separazioni non sono così nette. Il tempo del lavoro esce di fabbrica e si espande al resto della vita; il tempo della scuola si confonde con il tempo del lavoro. La campagna diventa “piantagione”, luogo geometrico dell’agricoltura industriale, intensiva e a bassa domanda di forza lavoro, luogo che non occorre più abitare. Tutta l’interazione, tutte le possibilità di scambio, di produzione e di riproduzione si svolgono adesso nella città. Nella metropoli in espansione, fatta di mille periferie, senza piazze, senza centro, senza circoli o muretti; dove le strade non sono vie di comunicazione, ma divisori degli agglomerati abitativi. Si abita dietro porte blindate con rapporti condominiali soltanto residuali. Dove tutto è residuale. Non si esce più per andare al bar, al bar si consuma, spesso in piedi, una botta e via. Negli interstizi delle periferie i centri commerciali esauriscono gli schemi della socialità umana. Ma non c’è quella mancanza di distanza sociale che trasforma le epidemie in pandemie. Nella metropoli ipertrofizzata, avviene di tutto in nessuno spazio preciso. Gli umani sciamano formando aggregazioni e affollamenti come nelle vie del centro di Bangkok che sono le strade dei mercati a cielo aperto nelle quali si svolge di tutto: produzione, riproduzione e cura.

La produzione cognitiva è uscita di fabbrica, corre sulla rete, è essa stessa rete che cattura e mette all’opera gli umani. Che li convoca, sorveglia, controlla, spolia, educa e coercizza. Lo spazio urbano atomizzato o contratto contiene tutto. È ritrovo e dispersione. È solitudine e assembramenti, senza un disegno, una demarcazione, una funzione precisa e architettonicamente definita. Gli edifici non hanno più funzioni, tutte le funzioni si svolgono in rete.

 

Se il sistema mnestico, della ipomnesi (ritenzione terziaria, grossolanamente: memorizzazione su supporto esterno, cfr. supra, segue alla anamnesi, ritenzione secondaria, rimemorazione, rappresentazione in quanto ri-presentazione), relativo all’invenzione della scrittura (ne ho parlato qui) e in particolare di quella alfabetica, dà l’avvio all’assoggettamento del discorso alla razionalità, trasforma il logos in ratio, le interfacce visive di comunicazione umani-macchina – il mouse che sostituisce la tastiera – compiono l’operazione opposta creando una situazione apparentemente paradossale. La macchina che non ha emozioni e che oggettivizza la realtà, che sembrerebbe incarnare il massimo del raziocinio possibile, interagisce con gli umani attraverso forme di comunicazione che privilegiano le emotività, le reazioni istintive, quelle meno ponderate. Il teatro dell’assurdo mette in scena una rappresentazione nella quale la macchina impegnata nel deep learning, nell’apprendimento profondo, nell’auto apprendimento, lavora su dati che l’emotività umana le ha fornito. Se la scrittura, come tecnologia mnemonica, pur poggiandosi su una interfaccia visiva, privilegiava la voce, il definitivo transito verso la vista si compie con l’affermarsi del mondo digitale che comporta un proliferare di schermi: smart tv, desktop e laptop, tablet e smartphone. Qui la trasformazione antropomorfa si fa più manifesta. Sono posture, gesture, tracce mimetiche, tempi e attenzioni. La scrittura è uno spostamento e un assestamento. La scrittura dà perentorietà alla voce. Univocizza il pensiero. La conservazione analogica della voce permette una distanza, permette di lavorare diacronicamente sul senso. La conservazione digitale opera non solo sulla voce, sul discorso, sul logos, ma anche sulla vista, sul gesto, sull’immediatezza dell’immagine che scavalca la fase della rimembranza (ritenzione secondaria, per attenersi al vocabolario di Husserl/Stiegler), perché l’immagine si presenta senza intermediazione. Veicola più ripetizioni che differenze. È più immediata che mediata. L’immagine è meno dia-logica dell’accoppiata voce scrittura. Gli umani digitali sono così meno razionali di quelli analogici, di quelli della lettura. Questo non significa che siano più creativi, più immaginifici, semmai più introversi, più riflessivi in termini narcisistici, meno propensi al dialogo a quel tipo di relazione capace di creare narrazioni che sappiano sedimentarsi nel sentire/sapere collettivo. Questo non significa che possano recuperare le voci delle culture orali, i collegamenti magici, i legami della stirpe. Ma nemmeno che non si possano aprire ad altre possibilità. In questo caso il trapasso epocale non è il frutto dell’algoritmo di scopo, al limite è un incidente sul percorso. In discussione è il cosiddetto modello di sviluppo che va in direzione di una digitalizzazione forzata del mondo in vista di una sua datificazione da dare in pasto agli algoritmi condizionati dal meta algoritmo primo, quello appunto che persegue il profitto. Sono il caso tipico nel quale la tecnologia rivela la sua vocazione farmacologica, del pharmakon che può essere sia rimedio che veleno; che non è un altro modo per affermare la neutralità della tecnoscienza, ma un modo per situarla, immergerla nelle reti di potere e di dominio, compreso quel modo che ci può permettere di progettare le vie di fuga che questa sua (non)essenza può contenere.

Continua…

Qui la I parte, Qui la II, Qui la III, Qui la IV, Qui la V, Qui la VI, Qui la VII, Qui la VIII, Qui la IX, Qui la X, Qui la XI, Qui la XII, Qui la XIII, Qui la XIV, Qui la XV, Intermezzo, Qui la XVI, Qui la XVII , Qui la XVIII

*Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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