Delirio computazionale e norma-lizzazione digitale

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Per una Critica del Capitalismo Digitale XXII parte

L’automazione digitale non riguarda tanto la mera sostituzione dell’azione umana, della forza muscolare, quanto la conoscenza che la macchina incorpora. Anche la rivoluzione industriale ruotava intorno ad alcune tecnologie non tutte materiali. Lo strumento, più o meno complesso e articolato che fosse, si staccava dalle mani umane e produceva autonomamente dei manufatti: il telaio per tessere. C’erano stati anche altri esempi di un uso di un’energia diversa da quella animale umani compresi, tipo il mulino a vento o quello ad acqua, ma la novità era un’altra, l’uso cioè di una energia trasportabile come la macchina a vapore che permetteva di avere l’energia là dove ci interessava fosse, sino al fatto che poteva essere essa stessa fonte di moto come nel caso delle locomotive. Inizia qui l’uso massiccio delle energie non rinnovabili. Secondo aspetto era la divisione del lavoro e la serializzazione. Le macchine potevano autonomamente produrre merci perché impiegate in mansioni ripetitive. La macchina era costruita – era programmata – per compiere quella funzione e non altre. Era il tempo nel quale le macchine svolgevano compiti semplici nei quali era spacchettato il processo produttivo sotto la supervisione e la guida diretta degli umani che continuavano a svolgere dei compiti fondamentali all’interno della fabbrica.

La seconda rivoluzione fu quella elettrica, innovazione che permise la trasportabilità dell’energia che poteva essere utilizzata ovunque anche lontano dalla fonte energetica vera e propria. Questa rivoluzione non cambiò molto la tipologia dell’intervento umano nella manifattura delle merci, semplicemente acuì gli aspetti dovuti dall’implementazione della tecnologia precedente, moltiplicando l’uso della produzione delle merci nei termini specifici dell’industria manifatturiera. Anche in questo caso la macchina incorporò parte del saper fare degli umani sostituendoli nei compiti più ripetitivi che proprio per questo non assorbivano le forme del sapere umano più complesse. In certi casi soppiantavano gli umani non tanto in termini di una loro autonomia, ma soltanto perché l’aumento di produttività, connesso all’uso delle macchine, diminuiva il bisogno di manodopera. L’ultima rivoluzione, quella digitale, ci ha messo a contatto con le macchine cognitive che di fatto espropriano totalmente il saper fare dagli umani che, separandosi dallo stesso, entrano in un rapporto tutto nuovo con le macchine.

Lo spazio che occupano le macchine si è dilatato a dismisura imponendo la serializzazione di ogni forma di produzione, uccidendo il saper fare artigiano e vernacolare. Il piano della accumulazione del valore si espande iniziando così ad operare anche nell’ambito della riproduzione e della cura in una maniera più radicale. Alla macchina capitalista non interessa niente dell’esistenza degli umani se non in quanto consumatori. Il gioco, l’ozio creativo e ri-creativo, il piacere e la festa devono essere subordinati alla macchina del profitto, tanto che la macchina digitale predittiva si deve adoperare per fare avvenire le sue predizioni, forzando il comportamento umano in termini favorevoli al mercato. Una macchina predittiva che lascia che le sue previsioni non si avverino, è una macchina inutile. Dentro questa scomoda presa di coscienza si manifesta tutto il potere che questo modello di sviluppo vuole e deve perseguire. La serializzazione industriale è una forma di semplificazione al lavoro degli algoritmi, non un dato indispensabile, ma che comunque indirizza l’algoritmo di scopo, il meta-algoritmo capitalistico in quella direzione. La serializzazione dell’allevamento porta all’allevamento intensivo e, di conseguenza, oltre a tutti i danni ambientali e per la salute, conduce a una riduzione delle varietà concentrandosi su poche di esse. Stessa cosa per l’agricoltura industriale. Per quanto riguarda la produzione manifatturiera, la serializzazione uccide l’artigianato incorporando parte del saper fare nelle macchine e sopprimendo lo scarto (tutto il resto), attraverso forme di concorrenza che ne evidenziano la sua non competitività nei termini dettati dal mercato.

La globalizzazione opera nella stessa direzione lasciando in vita soltanto quella varietà di prodotti per alimentare tutte le nicchie di consumo dando l’idea di una libertà di comportamento soltanto fittizia. Un proliferare di offerte che nella varietà apparente del manifestarsi delle merci, duplica il medesimo. Tutto il sapere che le macchine non incorporano, non trovando sbocchi si perderà. Tutta la creatività che non si può mettere in opera non riuscirà a sbocciare. Si prospetta un mondo che anche nelle aree sopravvissute alla distruzione dell’ambiente, sarà meno variegato in tantissime sue componenti sia di origine naturale che artificiale per quanto questi termini possano ancora avere un significato se li osserviamo da un punto di vista meno coloniale.

In questo mondo contratto, senza spazi realmente ludici e creativi, l’esistenza umana proverà piacere soltanto attraverso l’uso feticistico delle merci o attraverso l’ostentazione sadica del denaro e del potere da parte delle élite. E tutto questo, adesso, lo chiamano progresso! Se la “decrescita” rimanda a ambiti immaginari depressi e deprimenti, se il termine decrescita ha poco senso dal punto di vista di chi ha già poco, la crescita, all’interno del dogma capitalistico, è questo disastro; è questa regressione alla pura lotta per la sopravvivenza, senza tempo per vivere la vita.

Il paradigma del mercato innerva l’intera vita sociale. «La credenza in una possibile spiegazione scientifica dell’essere umano, la quale renderebbe programmabili i suoi comportamenti e obsolescente la stessa dogmatica giuridica» apre alla possibilità fattasi concreta «il sogno antico di poter governare gli esseri umani come si amministrano le cose» (Supiot, pp. 57-58) L’infatuazione macchinica rende naturale la regolazione degli umani, sposta nel campo naturale l’origine giuridica delle leggi quando invece non c’è ordine che non si riferisca a norme esterne a ogni umano. «Giuridiche, morali o religiose che siano, le norme esterne possono solo essere postulate, mostrate e sancite, ma mai dimostrate». Ancora Supiot (p. 58). Lo scientismo fideistico immagina un mondo senza leggi che non siano quelle delle fisica, popolato da uomini e donne diventati trasparenti a sé, in maniera tale che si può ormai parlare del funzionamento degli umani. La comunicazione, branca dell’informazione, sostituisce così la conversazione. Al governo delle leggi subentra la governance dei numeri. L’algoritmo padre (patriarcale) genera l’algoritmo figlio: la giurisprudenza che regolava i comportamenti intraspecifici e si basava sulla facoltà di giudizio, su operazioni di tipo qualitativo (distinguere situazioni differenti per sottoporle a regole differenti) e di interpretazione di testi» (ivi, p.59) proprio perché il senso non si dà una volte per tutte. Il modo di vedere delle macchine non è qualitativo è calcolante e quindi quantitativo. Ha bisogno di quantità, ha bisogno di un pre-giudizio che converta il giudizio in termini numerici, di ricondurre situazioni differenti in una medesima unità di conto. Non si tratta più di un riferimento alla legge che trascende i fatti, ma di inferire la norma dalla misura dei fatti. La libera circolazione di capitali e merci, la globalizzazione mercantile e capitalista obbliga gli stati a uniformare i sistemi giuridici nazionali per scongiurare regole che possono ostacolare questi suoi obiettivi.

La metamorfosi della terra in valore liquidabile in un mercato mondiale trasforma «la nozione di spazio, già riservata nel vocabolario giuridico a quelle parti del mondo che, non avendo limiti discernibili ed essendo inadatte alla vita umana, non possono essere occupate stabilmente (come i mari, gli oceani, l’aria o l’universo interstellare), è stato recentemente esteso al Diritto della terra» (p. 60). Si qualifica uno spazio e non lo si circoscrive facendo, all’apparenza, un’operazione liberatoria che però, di fatto, sostituisce le leggi territoriali con valutazioni che aprono alla comparazione che descrive uno spazio in termini di appetibilità, in funzione di operazioni di law shopping o di rating nazionale che indicizza e parametra le legislazioni in funzione degli incentivi o degli ostacoli a investimenti d’impresa. Una enclosure (recinzione in vista di un’espropriazione di un diritto d’uso comune) con perimetrazione valoriale. Libertà di impresa che si impone sopra le espressioni territoriali e sopra gli abitanti di dette regioni. Una deregulation che alza il rating e che apre le porte alla speculazione algoritmica che ne fissa il valore riducendolo di fatto a elemento alienabile, sul quale si può mercanteggiare. La datificazione del mondo si sviluppa in parallelo con la sua valorizzazione mercantile, in definitiva con il suo ap-prezzamento.

Paesaggi, ambienti umani, lingue, abitudini di vita, cultura materiale e modi di pensare, tutto quello che non è da subito mercificato o apparentemente non mercificabile, ma che ha un valore comparativo quando si devono valutare i vantaggi che un paese offre, cade sotto i meccanismi di scoring che agiscono poi in quella che viene chiamata la “valorizzazione” per esempio del patrimonio artistico culturale di un paese. Valorizzazione che viene confusa con la sua messa a profitto o con la sua alienabilità sino alla creazione di un brand relativo alla cosa pubblica che così cede il passo alla aziendalizzazione del mondo aprendolo all’uso algoritmico. Il Capitalismo Digitale mette in atto tutta una serie di strategie e di appropriazioni della territorialità, dell’iscrizione ad un ambito culturale, della cultura materiale e di quella sociale che portano a un nation branding. Sono anche queste enclosures nel senso di cui si parlava sopra: iscrizioni, circoscrizioni, definizioni e recinzioni espropriabili che all’epoca del Capitale Digitale sono riduzioni alla computabilità. Sono rendere queste territorializzazioni materiale manipolabile dagli algoritmi. È questa una operazione così pervasiva che ha bisogno di dispositivi efficienti. Si deve lasciare fuori il meno possibile. Ma l’emozione profonda, il sublime artistico, la sovranità distruttiva del sacrificio e quella costruttiva dell’ozio, il gioco senza regole, la festa, sfuggono la quantificazione e con essa la loro messa a profitto. Per questo sono situazioni e modi di essere divenuti desueti, banditi o fuorviati, portati fuori via, in direzione dei loro feticci; verso la spettacolarità sociale delle merci. Lo dicevano già i situazionisti, ma il media digitale è strumento inedito e efficiente, prodotto del progresso e dell’oggettività delle macchine che scalza le soggettività riducendole a profili.

Si tratta di un circolo vizioso. La statistica economica e sociale non misura una realtà preesistente, ma, equiparando enti e forze eterogenee, costruisce una nuova realtà. La descrizione si sostituisce alla realtà (vedi i lavori di Alain Desrosières). Una realtà perentoria frutto di un processo di quantificazione. Quantificare è un’azione, ha un agency sulle cose, non una semplice misurazione. Non è un punto di vista, è uno sguardo penetrante che ferisce la sostanza, che la manipola. È una dogmatica. Perché valutare non è soltanto misurare, ma riferire la misurazione a un giudizio di valore che gli conferisce senso usando categorie di pensiero non date per natura, ma che ci siamo dati per comprenderla. Così si scollega la realtà, si lavora dentro lo stesso processo di significazione, adoperando significanti senza referenti. Così «perdendo il senso della misura, la finanza ha perso il contatto con la realtà [scollegamento tra moneta e riserva aurea], fino a che questa non si è vendicata» (Supiot, p. 65). I nuovi indicatori modellati dal bisogno di governance non mirano a orientare, ma a programmare l’intervento delle istituzioni e degli agenti pubblici, assegnandogli un punteggio comparabile con quello dei loro competitori.

La messa a profitto del Capitale Digitale, la riduzione a quantità degli algoritmi profilanti producono un effetto, una reazione al benchmark, una reazione al loro giudizio sulla performance. Alla performance dell’istituzione pubblica, a quella aziendale e a quella personale in vista di una normalizzazione. Di una norma che si sovrappone e soppianta il piano giuridico che agiva nel mondo analogico. Provoca un autismo da quantificazione che dilaga in ogni ambito, fornendo un aura di oggettività scientifica a questo sistema del valore. L’immagine prodotta dall’estrazione algoritmica del giudizio non ha ormai che pallidi riferimenti alla realtà, sostituita non più dai modelli descrittivi della stessa, ma dalle credenze che sono state oggetto dell’elaborazione computazionale. Un modello di pensiero che quando si applica per esempio alla scuola, quando si cercano cioè, gli indici quantitativi descrittori dell’efficienza dell’insegnamento, calcolando il numero dei laureandi o degli abbandoni nei primi anni, si possono aumentare semplicemente le performance attraverso un abbassamento del livello richiesto. Cosa che puntualmente accade in Italia in particolar modo negli istituti tecnici e professionali dove più si manifesta il problema dell’abbandono scolastico, con il risultato di rendere praticamente ingestibili le classi. L’infatuazione digitale che è l’ultimo sviluppo di quella positivista e aziendalista che si affidava alla pretesa oggettività del calcolo matematico, ci fa dimenticare le convenzioni di equivalenza che hanno preceduto e presieduto alla loro formulazione. La riduzione a numero, a quantità computabile, non è una semplice riproduzione è una traduzione tra campi semantici diversi, che provoca sempre degli scarti, che non copre la stessa superficie semantica dell’originale.

La macchina digitale è una macchina sincronica, di un fenomeno coglie la sua dimensione in un punto dell’atto o all’interno di un segmento che si presuppone significativo (il campionamento). La macchina digitale coglie l’attimo, il dato. Una descrizione stabile di quel fenomeno, una sua misurazione, a volte una sua valutazione. La macchina digitale non è dialogica, raccoglie i dati nella loro forma stabile. Il campo giuridico, la formulazione di una norma, invece, hanno a che fare con l’inter-detto, che è ciò che permette agli uomini di rapportarsi e di non uccidersi a vicenda. E l’inter-detto, come si intuisce, è dentro il tempo, dentro le relazioni e dentro la storia. Dentro all’evento e alla sua durata.

Continua…

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Alain Supiot, Lo spirito di Filadelfia. Giustizia sociale e mercato globale, et al. Edizioni, Milano 2011

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*Gilberto Pierazzuoli

 
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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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