La smaterializzazione della realtà (terza parte)

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*Per un’ecologia anticapitalista del digitale – parte #13.3

La condizione umana in rapporto all’ambiente e a tutti i suoi abitanti si determina non soltanto in base agli organi di senso ma può anche fare riferimento a effettori e ricettori di carattere “artificiale” tali da porre gli umani in una posizione eccentrica rispetto all’ambiente. Luogo dove l’attrezzo, la tecnica possono assumere anche un carattere complementare/sussidiario. Gioca qui un ruolo non indifferente il lavoro della funzione di esonero che esclude le funzioni inferiori affidandosi a quelle superiori: “le motorie dalle sensorie, le sensorie dalle intellettuali […] [come quando] possiamo richiamare nell’immaginazione esperienze motorie – fino all’esonero dell’azione fattuale per mezzo del linguaggio. Conseguenza di questo esonero è lo ‘sviluppo crescente di comportamenti umani indifferenti’, la ‘svalutazione del contatto con l’ambiente’. Il circolo dell’immediatezza viene rotto – l’uomo acquisisce la distanza e la libertà di rendersi atto alla vita agendo nel mondo” (Popitz citato da Fadini 2022, pp. 12-13). Si celebra in un certo senso la messa al lavoro di forme di pensiero “astratto”. Si parla perciò di sostituti, esoneri e rafforzamenti degli organi da parte della tecnologia. La tecnica esonera il gesto; lo sviluppo esponenziale della tecnica fa sì che gli umani disimparino a fare le cose, perdano sempre di più il contatto con le cose, la capacità stessa di utilizzare le cose che, come abbiamo visto, è, per Heidegger, il modo attraverso il quale abbiamo accesso alle cose stesse, anche se questa esperienza non esaurisce la loro essenza. Non ci fa accedere alla loro essenza.

Il lavoro umano una volta sussunto dalla macchina viene espropriato e poi dimenticato dagli umani. La perdita di capacità di azione in rapporto alle cose ce le fa scappare di mano. E questo scappare le restituisce a quello sfondo indistinto che la loro funzione d’uso aveva permesso loro di emergere e di consegnarcisi. Tutto questo avveniva anche nel mondo analogico ma c’era una forma importante di resistenza. La manipolazione macchinica operava ancora sulle cose e non sulla loro rappresentazione. La digitalizzazione è un modo per lavorare sulle informazioni e non con le cose. È un modo di trasformare le cose in informazione, in segni. Di introdurre un’ulteriore differanza [differ(a)nce] direbbe Derrida. Riprendendo allora il discorso che facevo sopra (nella prima parte): si tratta di un differimento che annebbia e oscura le cose; che oscura dunque il referente ma anche il significante. C’è solo il significato, il segno avulso. Un’operazione che disaccoppia i legami del triangolo della significazione. È questa la perdita di realtà, il vero senso della “virtualizzazione”; il punto in cui la digitalizzazione porta alle estreme conseguenze la virtualizzazione stessa. Secondo la fenomenologia c’è già una perdita (o forse anche una presa in carico) tra la percezione (il fenomeno/la cosa) e la sua rappresentazione, la sua immaginazione, il riportare il fenomeno alla mente. Quel differire che diversifica la ritenzione primaria dalla secondaria e che il trasferimento in un media esterno acutizza: la ritenzione terziaria, lungo il percorso che va da Husserl a Stiegler tramite Derrida. Ma che qui, in quel passaggio all’infosfera che il digitale ha creato, è reso più acuto, quasi si trattasse di un ulteriore differimento. Una ritenzione di quarto grado.

Proviamo ad articolare questo concetto in un modo meno sintetico. Si tratta ancora una volta di ricostruire il senso della verità. Una di queste ipotesi potrebbe essere quella di guardare alla verità come riempimento di senso che si ha quando siamo davanti alla cosa in carne e ossa. Il senso della visione diretta condensa però due tempi: non soltanto è presente questo rosso ma nello stesso tempo è presente il rosso, il concetto astratto di rosso che ci fa percepire questo rosso come rosso. C’è differenza tra espressione e significato. Quando dico rosso, io dico un’essenza, ma la dico attraverso un’espressione che non è l’essenza, sono fatti di materie diverse. Adesso, senza addentrarci qui nelle conseguenze metafisiche che questo ragionamento implica, ci basta porre l’attenzione sul fatto che la sensazione e la sua significazione (di nuovo, questo rosso e il “rosso”) non coincidono; ma bisogna altresì prendere atto che non ci sarebbe questo rosso senza il riferimento al concetto di rosso, come non ci sarebbe però nemmeno quel concetto, senza la sua percezione fenomenica. Si tratta di una latenza, di due tempi diversi, di un differire che rimane incolmabile. Tutto questo avviene ogni qualvolta richiamiamo alla coscienza qualcosa e si acutizza ogni qualvolta introduciamo un differimento. E la digitalizzazione è un differimento. Tutto questo è ovvio: la digitalizzazione di una cosa non coincide con la cosa in sé, in carne e ossa. Ma oltre a questo differimento, a questa differance, il riferimento che la digitalizzazione introduce è quello che il rosso digitale ha più a che fare con il rosso concettuale che non con i rossi fenomenici (è un rosso statistico che probabilmente ha a che fare con il rosso concettuale ma che non coincide con esso), introducendo un’ulteriore distanza tra questi elementi. Un livello di astrazione in più che ci allontana ulteriormente dalle cose. Ma che tende anche a normalizzare le cose stesse. Le cose fuori dalla forcella probabilistica scompaiono. L’ineffabile stesso non sarà così soltanto l’indicibile, ma semplicemente non sarà. La digitalizzazione riduce la varietà del mondo. L’opera di disincanto ha così uno strumento in più da mettere all’opera. Il gioco, il magico, l’incanto trovano sempre di più meno spazio.

Alcune cose sono precipue di certi luoghi, fanno i luoghi. Un’orchestra rimanda a più luoghi. A una sala da concerto, come a una balera. Una banda richiama la strada, la piazza; anche la festa: un tempo-luogo. Un juke-box è esso stesso un luogo: ritaglia uno spazio intorno a se, lo caratterizza, in definitiva lo definisce. E quello spazio è uno spazio pubblico. Il juke-box crea il luogo dove si condivide la musica. La musica digitale si ascolta preferibilmente in cuffia, con gli auricolari; la si condivide meno. Anche la musica analogica aveva apparecchi portatili per l’ascolto singolo: il walkman della Sony. Ma c’erano anche apparecchi portatili per condividerla: avete presente i ragazzi delle gang giovanili con un riproduttore stereo esagerato appoggiato su una spalla che riempiva di suono la strada intorno a loro, in modo che il raggio di diffusione di quella musica creasse un luogo? La spaziatura, la territorializzazione semplice, “la geografia era sempre stata serva della storia, delle conquiste e del tracciamento dei confini, e che solo ora si prestava maggiore attenzione ai ‘messaggi dei luoghi’” (Handke, 82%). Una spartizione della terra non geometrica, ma per linee di forza. Un luogo è allora un modo per abitarlo. Andare di luogo in luogo è esperirne la materialità e percepire il campo di forze che lo percorre. Soltanto in un luogo è possibile costruire un rifugio. Questo tipo di esperienza dei luoghi, Handke lo paragona a: “un essere-al-proprio-posto” (32 di 63). A partire dalle cose e dal campo di forze che esse “emanano”, i luoghi si fanno ospitali od ostili. La materialità delle cose, la disponibilità alla manipolazione, la possibilità di interagire con esse, fa dello spazio un luogo e delle cose, cose.

Il juke-box abitava e fondava uno spazio pubblico. Si accedeva al juke-box con una moneta, il tuo brano sarebbe stato diffuso di lì a poco, subito dopo le selezioni fatte prima di te e prima di quelle a venire. Era uno spazio condiviso che costringeva al rapporto con gli altri con i quali potevi essere in armonia o in conflitto. Ma prevaleva la prima possibilità: quel juke-box conteneva brani in qualche modo condivisi. Il barista indiceva una riunione dei giovani del quartiere per selezionare i dischi da inserire nella macchina meccanica e un’altra quando sarebbe stato il momento di aggiornarla. Le playlist proposte dalle piattaforme ti vengono cucite addosso: “in base al tuo comportamento online abbiamo pensato che questo potrebbe piacerti”. E l’operazione la fa l’algoritmo con i suoi metodi imperscrutabili che chissà, cercano affinità (corrispondenze) tra le forme d’onda: il metal e le sinfonie melodiche hanno tracce diverse. Così per i ritmi. Per le note acute, i diesis? Una amica sosteneva che per imitare i pezzi di Jarret bisognasse suonare principalmente le note in diesis, i tasti neri del pianoforte. Ma non è che poi l’algoritmo sbagli del tutto, spesso ci dà; così come spesso si sbaglia, proprio perché ha fatto associazioni senza senso. Ma non è musica condivisa, quella che ti accomuna e ti oppone. È musica fuori dal tempo, fuori dalla contingenza. Gli algoritmi, per loro natura, meglio per la natura attraverso la quale vengono prodotti dal capitalismo digitale, sono incapaci di essere contingenti. E senza contingenza non c’è nemmeno storia, contesto, vita vissuta. Soltanto vita probabile. Non c’è passato e non c’è futuro. Il futuro è ora perché non c’è futuro. Soltanto un eterno presente. Calma piatta.

C’erano certo anche luoghi non-luoghi, luoghi di passaggio dove poteva campeggiare un juke-box contenete una selezione anonima ma non poi così tanto. Era in quel caso pur sempre rappresentativa delle tendenze del momento: potevi essere quasi sicuro che un brano di tuo gradimento fosse presente. Soltanto dopo è nata la musica ambient che abitava anonimamente i non-luoghi. Non-luoghi perché sempre di più spogliati da cose capaci di creare campi di forze. Incapaci di rappresentazioni non concludibili perché non racchiudibili (Derrida 1971, pp. 325-358), ma di sola immagine, di cartapesta. L’universo digitale è un mondo di facciata, di cartapesta, appunto: non c’è allora nessuna differenza sostanziale tra un mondo di cartapesta e la sua copia digitale. Forse in quest’ultimo caso la cosa è ancor più evanescente visto poi che la cartapesta una sua materialità tangibile la mantiene. Dietro la facciata non c’è nessun luogo. Impossibile abitare in un mondo senza cose.

Altri strumenti elettromeccanici creavano luoghi. I flipper furono il mezzo per il quale nacquero le sale giochi (nel film Licorice Pizza c’è un esempio della nascita di una di esse). Luoghi che sopportarono le prime implementazioni ludiche del digitale, per esserne però travolte subito dopo. Oggi infatti si parla a volte di sale giochi in riferimento a dei locali nei quali si gioca di azzardo. Nei flipper la materialità del rapporto era ancora più accentuata che non con i juke-box. I bravi giocatori interagivano con la macchina con tutto il corpo. La spostavano impercettibilmente influenzando il percorso della biglia di metallo; ma non potevano esagerare altrimenti la macchina andava in tilt. Ma non era un glitch della sua “programmazione”, era previsto: si accendeva la scritta “tilt” e la partita terminava. La simulazione digitale ha scorporato la macchina. Quella macchina è diventata una app che puoi scaricare sul tuo device. E con i giochi attuali si interagisce sempre meno con il corpo, tendenzialmente si usano soltanto le dita. Le cose non si manipolano, si digitano. Le possibilità di gioco con gli altri, quando sono previste, spesso si fanno online, non in presenza. Non c’è nessun luogo. E la digitalizzazione è servoassistita: è spesso senza sforzo e senza feedback. La virtualizzazione ti priva della capacità di manipolazione. Come abbiamo già detto, asserve il tatto alla vista. Il touch non è un tastare. Il feedback del touch è una sensazione liscia, pressoché assente. È il monolite nero di “2001 odissea nello spazio” di Kubrick. Così liscio da scottare, così liscio da essere, in quel mondo, persino repellente. Anche il Pachinko è in origine un gioco analogico la cui riduzione digitale lo snatura a slot-machine. La sfera introdotta manualmente con angolature e spinte diverse, prendeva percorsi tali che un accanito giocatore poteva imparare dei gesti che portavano a risultati migliori. Iscrivevano il gioco alla categoria dell’agone e non a quella della alea secondo la classificazione proposta da Caillois. Giocare era allora acquisire una abilità, essere capaci di una manipolazione, essere capaci di rapportarsi con le cose. Nelle sale da Pachinko analogico, alla chiusura, un addetto manometteva la disposizione dei chiodi per impedire a un giocatore di apprendere una configurazione e di riuscire così a vincere ripetutamente. Era come un cancellare le tracce, quel sentiero ideale che la biglia doveva percorrere per risultare vincente. L’universo digitale è senza tracce, senza segni rivolti all’altro, senza percorsi soltanto tracciati, come inviti a essere per-seguiti. La macchina del Pachinko si imparava così come i flipper che dopo un po’ si dovevano cambiare, altrimenti i buoni giocatori ci avrebbero potuto fare delle partite interminabili (Vedi lo spezzone sul Pachinko tratto da Tokyo-Ga di Wim Wenders). Con i flipper era un corpo a corpo che si faceva con la macchina. Nel digitale la macchina si smaterializza e il corpo si fa superfluo. Forse è questa l’idea che sopraggiunge una volta affidatici al mondo digitale, l’idea di un corpo superfluo che ti può fare immaginare l’upload della mente caro al pensiero transumano (da non confondere con il postumano).

Le cose creano mondi. La realtà materiale è quella che esperiamo con i sensi. L’esperienza sensoriale si traduce in una immagine mentale. Questa si realizza per sottrazione. Dal continuum variegato del mondo lasciamo emergere le cose abbandonando lo sfondo. Si va avanti per condensazioni e scarti, quando le cose perdono la loro cosalità, il mondo sembra scomparire. “Solo tramite le cose il mondo diventa visibile”, dice Han (2022, p. 113). Mediante il juke-box si rivelano delle forme che altrimenti ci sfuggirebbero. Il juke-box crea luoghi. “Tutti, sia gli esseri umani sia gli animali, si trasformano negli abitanti, nei residenti del luogo. Nasce così una natura morta locale in cui ogni cosa è vicina all’altra, nella cornice di una silenziosa comunità delle cose” (Ibidem, i corsivi sono dell’autore). Oltre allo spazio, le cose danno consistenza anche al tempo. Spesso sono collocate nel tempo. Un libro ingiallisce, una cravatta ha una macchia procurata in quel giorno. La nostra percezione del tempo è in ragione dei luoghi e dei rapporti che instauriamo con le cose. La digitalizzazione delle cose, la loro trasformazione in informazione, le rende atemporali. Il tempo è legato ai luoghi: qui adesso è mezzogiorno e il sole è allo zenit, non così a Tokyo o a Lisbona. Il tempo contestualizza la realtà, ma non il tempo dell’infosfera: esso è un tempo universale e non “locale”. Anche la durata si confronta con le cose, senza di esse il tempo è un concetto senza senso. L’esistenza delle cose è il posto che esse occupano una accanto all’altra, volta dopo volta. Nell’universo digitale le cose sono soltanto una condensazione di bit, un grumo di informazione senza collocazione. Non risentono delle vicinanze, delle prossimità, delle interrelazioni. Ne hanno di un altro tipo che le determina in tutt’altro modo. Le relazioni reciproche tra rappresentazioni numeriche delle cose, sono infatti diverse da quelle che hanno tra loro le cose materiali. La rivoluzione digitale ci priva delle cose e, con loro, ci priva del mondo, ce ne concede soltanto una parvenza con la quale convivere senza disturbare il guidatore.

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Ubaldo Fadini, Eterotopie dell’umano. Metamorfosi antropologiche, ombre corte, Verona 2022

Peter Handke, Saggio sul juke-box, Garzanti. Milano 1992 Edizione digitale 2020

Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022

Qui la prima parte, Qui la seconda. Primo intermezzo, Secondo intermezzo, Qui la terza, Qui la quarta, Qui la quinta, Qui la sestaQui la 7.1Qui la 7.2Qui la 8.1 Qui la 8.2, Qui la 9Qui la 10.1Qui la 10.2Qui la 10.3, Qui la 11 Qui la 12Qui la 13.1, Qui la 13.2

(*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale” uscito a puntate proprio su questo spazio e poi raccolto nel libro “Il soggetto collaborativo. Per una critica del capitalismo digitale” per “ombre corte”. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti.
Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link.

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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