Sanitari per Gaza in piazza a Firenze

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Intervista a Francesco Congiu, infermiere all’Ospedale di Ponte a Niccheri, sabato in piazza contro il genocidio palestinese

L’intervista si è svolta in Piazza Ss. Annunziata a Firenze. Mentre parliamo, i cori intonati per invocare la liberazione del territorio palestinese si alternano agli interventi dei sanitari. Uno striscione alle loro spalle recita: “A Gaza è strage di bambini, fuori dalla Fondazione Meyer il console di Israele”, riferendosi, come esplicitato in alcuni interventi, al neo-presidente Marco Carrai.

Perché sei qua oggi?

Oggi dobbiamo essere in piazza perché è un dovere civile non essere indifferenti a una situazione che ci interessa tutti. Noi ci troviamo in una parte relativamente privilegiata del mondo ma in un paese non lontano da noi, che dovrebbe poter vivere libero e indipendente da un altro che invece lo sta sottomettendo, bombardando ospedali, scuole e uccidendo civili innocenti, che non hanno peraltro la forza necessaria per difendersi. Questo è un crimine da parte di Israele e di tutti i Paesi collusi che stanno appoggiando questo genocidio. Quindi oggi siamo qui in piazza perché se “la libertà è partecipazione”, allora ci vogliamo opporre a questa situazione, come sanitari e come cittadini.

Ecco, la piazza è stata chiamata dalla Rete Sanitari per Gaza: siete persone che lavorano per la salute di tutte le altre. Come vedi la situazione dal tuo punto di vista di infermiere?

Si parla di un’unica battaglia: quella per il diritto alla salute. Ripeto, noi qui alcune cose le diamo forse anche un po’ per scontate (l’essere ricoverati se c’è bisogno eccetera), ma non lo sono ovunque e per la verità non lo sono nemmeno qua. Perché oggi la sanità formalmente è pubblica, e dovrebbe esserlo, pubblica e gratuita; eppure la direzione è quella del definanziamento da parte del governo e della conseguente privatizzazione. Già oggi se mi devo fare un esame diagnostico e me lo posso permettere è probabile che io preferisca pagare piuttosto che aspettare chissà quanto tempo, ma domani potrebbe accadere la stessa cosa per un normale prelievo, utile magari a controllare che la mia epatite o la mia insufficienza renale rientrino in dei valori accettabili. E rivolgersi ad aziende private significa poi andare a favorirle, e sappiamo che il loro primo scopo è quello del lucro e non tanto quello della salute. Poi ora ho preso il caso del prelievo, che in teoria sarebbe anche una cosa relativamente semplice, ma domani può succedere la stessa cosa per un ricovero, e questo mi costerà, e allora la salute sarà per pochi e non per tutti come dovrebbe essere. Noi come sanitari e come cittadini dobbiamo scegliere se pensiamo che sia il caso di rimanere indifferenti oppure di alzare la voce: secondo me la soluzione è alzare la voce. Per noi qui e per il diritto alla salute di un popolo soggiogato da decenni di politiche ingiuste.

Quindi promuovere la salute significa anche intervenire politicamente alla radice delle cause dei disagi delle persone, ho capito bene?

Assolutamente. Come sanitari dobbiamo muoverci anche nel campo della politica. Ti dicevo delle aziende private, ma oggi persino la salute pubblica viene gestita da istituzioni che funzionano come delle aziende, che si definiscono pubbliche ma poi si trovano a dover sacrificare la salute delle persone per motivi di bilancio. Che poi non si parla ovviamente solo degli ospedali, ma anche di centri di salute mentale, di strutture di riabilitazione, di presidi sanitari diffusi e via dicendo. Spesso ci si dimentica del territorio, laddove invece stare a contatto col territorio, dare alle persone la possibilità di un’assistenza di prossimità favorirebbe da un lato il loro accesso alla salute, per i motivi più vari, e dall’altro andrebbe ad alleggerire il carico di lavoro degli ospedali veri e propri. Tante persone spesso si rivolgono agli ospedali perché il medico di base ha già troppo lavoro e non risponde, e allora per evitare di pagare cento euro per farmi una risonanza mi tocca aspettare un anno. E alcune volte anche aspettare pochi mesi può significare intervenire troppo tardi. Il problema non è che mancano le idee, è che bisognerebbe volerle realizzare. E per volerlo c’è bisogno di coinvolgere le persone e alzare la voce tutti insieme. È una battaglia che riguarda tutti, a prescindere dall’età. Spesso ce ne accorgiamo solo quando tocchiamo questi problemi con mano, ma se aspettiamo di averne bisogno direttamente, oltre a dimenticarci degli altri, arriviamo troppo tardi. E se oggi è difficile intervenire, domani potrebbe esserlo ancora di più.

Far dipendere quindi anche l’economia dal benessere delle persone e non il contrario. Mi sembra che questa piazza oggi renda evidente anche il fatto che non possiamo accettare che i nostri privilegi, e in particolare quelli dei più ricchi, poggino sulla miseria di altri.

Esattamente. Se cadono queste fondamenta, ed emblematici in questo senso sono i bombardamenti degli ospedali a Gaza, allora possiamo stare sicuri che andremo verso un degrado, una deriva che ci porterà ad adottare un modello simile a quello degli Stati Uniti, dove la salute è un diritto esclusivo di chi se lo può permettere. Dal nostro punto di vista di lavoratori in Ospedale ce ne rendiamo conto direttamente: quando ci troviamo costretti a ritmi di lavoro insostenibili e peraltro non abbastanza retribuiti se pensiamo a quanto è utile un lavoro di questo tipo. Alla gente passa anche la voglia di andare a fare quel lavoro, e questo è un problema.

 

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Laureato in Antropologia culturale ed etnologia all’Università di Bologna, attualmente dottorando in Ingegneria dell'Architettura e dell'Urbanistica alla Sapienza Università di Roma.

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