La post-verità e la fine del logos

Per una Critica del Capitalismo Digitale XVIII parte

Avevo già parlato del passaggio dalla società disciplinare a quella di controllo. Dal punto di vista della produzione si passa dalla fabbrica all’impresa; alla gestione aziendalistica e manageriale della produzione e del suo indotto. Il controllo della forza lavoro, la contrattazione del salario. Ai tempi della fabbrica il salario segnava il punto determinato dall’incontro delle aspettative dei due attori: il massimo possibile per l’operaio, il minimo possibile per il datore di lavoro. Nella società di controllo mutati rapporti di forza potevano spostare quel punto, ma per il resto del tempo la sua posizione era stabile e fotografava proprio quel rapporto di forza. Nella società di controllo, quando alla fabbrica subentra l’azienda, il punto che determina l’entità del salario diventa metastabile, è fluttuante, si parla infatti di modulazione del salario, è immerso in un flusso frutto dell’elaborazione di dati provenienti dall’interazione tra l’operaio (o altro dipendente), e la macchina algoritmica che misura l’efficienza, la fedeltà, la puntualità, la gestualità e che, in un gioco di incentivi e punizioni, plasma il dipendente e il suo salario al flusso macchinico molto di più di quanto la catena di montaggio poteva fare sul corpo dell’operaio. Si introduce una rivalità perenne alimentata da tecniche motivazionali che si appoggiano a una datificazione dell’esistenza. Come l’impresa sostituisce la fabbrica, la formazione permanente sostituisce la scuola, va oltre l’apprendimento scolastico, inglobando la scuola e proseguendola. Gli esami non finiscono mai, rigenerati continuamente dal controllo ubiquo e perenne degli algoritmi che misurano la nostra efficienza. Mentre le società disciplinari erano attraversate da parole d’ordine, quelle di controllo sono in balia delle cifre. Delle valutazioni, delle assegnazioni di valore. Del profilo assegnatoci, del posto assegnatoci in mezzo alle merci e ai loro feticci. Il richiamo all’ordine non viene dall’esterno, ma dall’apparato cognitivo di cui si fa parte che così controlla l’organismo dall’interno.

Neanche il capitalismo digitale è riuscito a redistribuire parte della ricchezza, ha soltanto cambiato il posto dell’umanità. «L’uomo non è più l’uomo rinchiuso, ma l’uomo indebitato» (Deleuze, p. 239) Ma l’uomo e la donna contemporanei, l’umanità del Capitalismo Digitale, si trova a essere sempre più espulsa dal meccanismo di classificazione che trova le donne e gli uomini troppo poveri per il debito e troppo numerosi per l’internamento. Una popolazione di scarto che abita(?) i ghetti o le baraccopoli delle periferie del mondo.

La penetrazione dell’universo digitale in quello analogico segue tre sentieri. La misurazione e la quantificazione (1) che diventano operazioni di monitoraggio del comportamento e della performance (2) e l’industria connessa che intravede la possibilità di mettere sul mercato prodotti e servizi, infrastrutture e piattaforme, non preesistenti (3). La scuola ne è un buon un esempio. Si misura di tutto, il numero di accessi negli edifici, gli accessi ai software, i prestiti bibliotecari, le presenze, la consegna di compiti, la valutazione degli stessi. La differenza tra analogico e digitale si potrebbe allora condensare nella differenza tra test a risposta aperta e quello a risposta multipla. La macchina ovviamente preferisce quest’ultimo perché è già di per sé datificato, ma vediamo cosa si perde. La crocetta su una casella non ci dice se lo studente ha realmente capito la problematica sottopostagli e la sua reazione alla query non fa trasparire il lato emozionale ed empatico che la scrittura libera in qualche modo permettono, non permette inoltre di prendere atto e (volendolo) di valutare il coinvolgimento. La valutazione avrà anche una percentuale di aleatorietà che può nascere per esempio dalla compilazione a casaccio che conterrà però una certa percentuale di possibilità di indovinare la risposta esatta. Di nuovo si manifesta il carattere non esaustivo dell’ambiente digitale che per ogni risposta comporta in parallelo qualche scarto. In un certo senso, in nome di una valutazione presunta oggettiva, si elimina il soggetto. La tirannia della valutazione trova ovviamente nell’ambito digitale un terreno favorevole. Questo gioco sull’oggettività e l’usabilità fa intravedere la sua “messa a profitto” che ben si inserisce nel bisogno capitalistico di estendere la sua capacità di accumulazione nel campo del welfare, della riproduzione e della cura, dei quali la scuola è un esempio calzante. La privatizzazione della scuola non passa soltanto attraverso il finanziamento diretto delle scuole private, ma anche attraverso la fornitura di piattaforme e servizi che trovano nella scuola al tempo del Capitalismo Digitale un terreno favorevole. Già l’informatizzazione della sua amministrazione aveva visto lo spostamento degli investimenti dal piano materiale a quello immateriale, ma con la digitalizzazione della didattica si può arrivare a una sua importante dipendenza, basta pensare a cosa è avvenuto con l’adozione del registro elettronico che invece di appoggiarsi su una piattaforma prodotta e gestita dal MIUR si basa invece su di una completamente privata.

Dire che l’essere umani delle donne e degli uomini è in relazione con la loro capacità di ibridazione tecnica è un punto di vista più specifico (anche nel senso originario di carattere della specie) di quello che descrive i condizionamenti che certe tecnologie esercitano sull’umanità. Non ci sono tecnologie più o meno invasive, ci sono soltanto momenti storici nei quali le trasformazioni tecnologiche hanno una apparenza più manifesta. La donna e gli uomini analogici erano ibridi come lo sono quelli digitali. Attraverso questo punto di vista possiamo provare a descrivere la trasformazione antropologica che è in atto attraverso il passaggio da analogico a digitale. Non so se questo passaggio è stato voluto dal capitale o se il capitale ha saputo cogliere meglio di altri l’occasione di questo passaggio, quello che è certo è che il capitale cavalchi molto bene questa situazione.

Le ricorrenti crisi da sovrapproduzione, il bisogno di ripetere periodicamente la fase di accumulo “originale”, portano il capitale anche su terreni diversi da quello strettamente industriale con il recupero e la messa in atto delle pratiche predatorie di tipo coloniale e post coloniale e attraverso l’appropriazione/espropriazione dei beni comuni. Con la duplice capacità del capitale di trovarsi un fuori, un oltre, da depredare, così come di trovare un dentro sul quale la sua voracità estrattiva non si era ancora esercitata. Il meccanismo è complesso, ma ha una sua efficienza. Il capitale ha sempre espropriato il saper fare umano incorporandola alla macchina anche durante la produzione analogica, ma con il passaggio al digitale la sua capacità estrattiva si fa più evidente. Se in un primo momento l’estrattivismo era rivolto principalmente alle materie prime e all’energia, adesso i dati – la loro estrazione – gli permettono di operare in maniera più profonda sino a potersi porre come obiettivo i corpi/mente degli umani. Se lo sfruttamento degli umani sugli umani era uno dei caratteri di questo modo di produzione che comunque lasciava spazi seppur ristretti di indipendenza, di festa e di gioco, adesso lo sfruttamento è più totale, è una forma di nuovo schiavismo attraverso il quale anche il concetto di sfruttamento sembra non funzionare più, perché si tratta di una incorporazione di una forma di cannibalismo non rituale ma strutturale. L’intera vita è incorporata nel processo di produzione. Tempo del lavoro, tempo della riproduzione e cura, tempo del consumo che sostituisce il tempo del non lavoro, saturando così i residui lasciti della disponibilità 24/7.

Con questo non voglio dire che l’evoluzione tecnologica, l’affermarsi di una tecnologia che porta di fatto alla sua esistenza ci restituisca uno strumento in sé neutro che il Capitale poi usa per il suo tornaconto; ma che, proprio le esigenze del Capitale, mediate dalle sue controparti, dai rapporti di forza messi in campo, ne determinino la nascita, gli obiettivi e gli sviluppi. Il mito di una scienza che scopre cose, leggi, possibilità e di conseguenza strumenti che la natura cela, è ormai tramontato da tempo. Così anche della fascinazione del cyborg che è una forma di ibridazione desiderabile e possibile (meglio cyborg che dea) non a partire dalla sua neutralità strumentale, ma da essere l’espressione del confronto tra l’interesse del profitto e quello delle libertà dalle configurazioni di genere e specie che di questo conflitto sono l’espressione.

La trasformazione antropologica è in qualche modo documentata dalla lingua, da quelle tracce di analisi dei nuovi contesti che vi si depositano testimoniando aspettative, descrizioni e spaesamenti. Free speech e free access ne testimoniano così una sua pseudo apertura. L’hate speech una sua deriva. E se l’offerta di informazione si caratterizza per quella sua speciale capacità di venirti incontro tramite la tua profilazione, raccontandoci così una realtà calcata sui nostri desideri, la domanda va nella direzione di ciò che ci interessa, che ci dà ragione, che conferma i nostri pregiudizi, ecco il confirmation bias che cancella alla nostra vista tutto quello che potrebbe mettere in dubbio le nostre idee trasformandole in certezze. Il lavoro della filter bubble, dell’operazione di iscrizione a cerchie ristrette, della ghettizzazione del pensiero, dei linguaggi e dei comportamenti, riduce il possibile fragore dei dissensi a un bisbiglio sullo sfondo, un rumore di fondo che caratterizza la rete e che diventa indistinguibile, diventa il silenzio del dissenso, suoni che si perdono in rete che diventa così una camera anecoica che è la marca di una profilazione che corrisponde al lavoro del dispositivo di controllo e assoggettamento della echo chamber. La macchina sistemica ci cuce addosso abiti su misura del modello determinato dalla rete e cioè dal lavoro che gli algoritmi svolgono su di voi. Lo specchio delle nostre brame diviene lo specchio della verità. Meglio ancora della post-truth (post-verità) così definita nel dizionario Treccani: «Argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica». L’esistenza della post-truth è specifica della comunicazione massmediatica ma in particolare della comunicazione sul web. I media tradizionali potevano camuffare o nascondere la realtà/verità, non crearne un’altra, il media digitale si può permettere che circolino più verità e la sua velocità privilegia le informazioni ad alto tasso di emotività e a basso tasso di ponderabilità. Non c’è da soppesare, le cose bisogna coglierle al volo, così come le verità. La rete non è un media freddo, la rete riscalda gli animi; è emotivamente determinato e determinante. Ma l’opinione creata funziona anche fuori dalla rete. La rete forma l’opinione che rimane tale anche perché la rete tende a sostituire gli spazi comuni, gli spazi di discussione. La verità dialogica alla base della democrazia in Grecia si spenge nell’occidente neoliberista delle mancanze di alternativa e delle verità plurime e artificiali se non automatiche.

Continua…

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*Gilberto Pierazzuoli