Per una critica del capitalismo digitale XIII parte
Il neoliberismo si basa sulla menzogna; quella menzogna che, per assurdo, è il fondamento del realismo che sta alla base del “Realismo capitalista” di Mark Fisher. Gli adepti di questa ideologia, tutti i politici delle aree parlamentari occidentali, recitano senza soste il mantra del TINA (There is no alternative)
Ma cosa è questa mancanza di alternativa? È il dispiegamento di una falsa evidenza. Quella che, dopo la caduta del muro di Berlino, non ci sia rimasto nessun sistema sociale alternativo al sistema capitalistico che, volenti o nolenti, sarebbe il sistema meno peggio di tutti. La spiegazione sarebbe quella che quando le aziende lavorano bene e sono floride, ci sarebbe una ricaduta positiva su tutti gli strati sociali. Il problema è che questo non è successo, o è successo in parte e in determinati periodi a partire e a causa dei rapporti di forza che le lotte delle classi subalterne hanno saputo contrapporre alla classe padronale e non per una concessione volontaria, né tanto meno per un meccanismo automatico. L’assurdo è che a partire dalla mancanza di alternativa si è ormai dato per acquisito che il sistema non può essere nemmeno migliorato.
Superati i Gloriosi Trent’anni, l’orizzonte economico per le classi subalterne è diventato sempre più fosco. Si è così iniziato lo smantellamento dello stato sociale che è andato di pari passo con l’indebitamento degli stati che ha perciò significato e prodotto quello smantellamento. Questo cupo orizzonte di fronte al quale non si può fare altro che prenderne atto, viene riprodotto da duri pragmatisti che svelano realtà indigeste e operano una metodica raccolta fondi per soddisfare la sete di ricchezza delle elite al potere.
Il fatto che non ci sia alternativa si accompagna così alle dichiarazioni per le quali la sostenibilità ambientale, la salute pubblica, l’istruzione dovrebbero essere sacrosantamente tutelate e finanziate, segue però la dichiarazione della non fattibilità della cosa perché non ci sono i soldi per farla.
Flessibilità. L’economia stava prendendo la strada postfordista segnata dal paradigma della flessibilità per il quale il modo di produrre ricchezza non era più orientato e determinato dalla produzione, ma direttamente dai consumi. La produzione sarebbe diventata just in time e la logistica il terreno dove capitalismo e forza lavoro si sarebbero scontrati più duramente. Il capitalismo digitale si è messo così a disposizione per assolvere il compito della movimentazione delle merci e delle persone. Nascono le piattaforme digitali con lo scopo di fare incontrare offerta e domanda. Esse si incuneano tra questi due estremi riuscendo a estrarre profitto da questa nuova condizione del mercato. La forza lavoro si è fatta allora precaria ed esternalizzata con un numero crescente di lavoratori utilizzati part time o con altri contratti atipici. Certi lavori si smaterializzano, altri vengono esternalizzati coinvolgendo il lavoratore stesso che da dipendente diviene libero professionista in maniera tale da essere esso stesso vittima e controparte. Lavoro e vita si fanno inseparabili.
Just eat e altre piattaforme di food delivery, Uber per il trasporto pubblico e altre, hanno o creato forme di lavoro sottoposte a controllo algoritmico dei comportamenti che sfiorano i criteri definitori della schiavitù. Così Amazon per quanto riguarda la logistica (magazzini e consegna). Airbnb e altre piattaforme di affitto breve, sono riuscite ad attirare la rendita finanziaria trasformando il tessuto urbano di innumerevoli città, gentrificando e allontanando gli abitanti originali dai centri storici. Si tratta di multinazionali a basso numero di dipendenti diretti che lucrano in maniera per niente smart; che mettono in campo sofisticate tecniche di controllo che di innovativo hanno soltanto l’efficienza nello sfruttamento della forza lavoro e la capacità di elusione delle tasse. Non c’è nessuna innovazione. Il mezzo tecnico rende ubiqua e disponibile l’informazione. Il progetto industriale, il progetto della piattaforma non fa altro che usare queste informazioni incrociando quella relativa all’offerta con quella della domanda, ma per essere efficace bisogna che tenda al monopolio dell’uso, che faccia riferimento a quasi tutta la domanda e l’offerta.
Pensiamo a Uber, dieci, venti cento piattaforme in competizione frazionerebbero la domanda, così come la disponibilità degli autisti rendendo difficile il loro incontro. Ci potranno essere auto libere in una data zona, ma lontano da quella da dove proviene la richiesta. Certo tutte le aziende lavorerebbero meglio senza concorrenza, potrebbero fissare i prezzi proporzionandoli solamente alla loro accettabilità. Ma qui il discorso è più condizionante. L’idea poi non era originale. A San Pietroburgo venti anni fa fermavi le macchine e ti accordavi per dividere le spese in cambio di un passaggio. Con l’utilizzo della rete, copiando quel comportamento, si realizzerebbe realmente una forma di sharing economy che ridurrebbe i costi, il traffico e l’inquinamento. Uber sfrutta l’idea per fare concorrenza ai taxi tradizionali e trarne dei guadagni senza avere né un parco macchine, né dei dipendenti. L’autista in teoria è una figura simile ai taxisti tradizionali, la macchina è sua e risponde alle chiamate della piattaforma così come il taxista risponde a quelle della centrale di radiotaxi. È un libero professionista, peccato che abbia un rating rispetto al quale gli arriveranno o meno le chiamate e questo punteggio lo confezionerà in base alla sua efficienza. Alla sua disponibilità a lavorare a orari notturni, a non prendersi pause tra una corsa e l’altra, ad accettare chiamate lontano, ad accettare compensi ridicoli, a fare i percorsi più brevi, perché sarà continuamente monitorato dall’algoritmo. Semplicemente, l’algoritmo gli controlla l’esistenza. Il ritorno collettivo messo in campo da queste forme “innovative” è il profitto per i proprietari della piattaforma e la semischiavitù per i dipendenti non dipendenti, completato dalla ciliegina che è l’elusione delle tasse che queste piattaforme comportano e di fatto praticano.
Facciamo una semplice ipotesi. Se Airbnb e Uber fossero piattaforme pubbliche e non private? Provate a immaginarvi i possibili scenari. La tecnologia digitale alla base della loro esistenza sarebbe realmente innovativa e ne godrebbero tutti e non pochi a scapito di molti. Ma TINA, il realismo capitalista, non ammette che ci siano non soltanto le alternative sistemiche, ma anche dei semplici affinamenti. Il sistema in uso è il neoliberismo e uno dei suoi dogmi è la non intromissione dello stato, del pubblico, punto e basta. Non c’è alternativa significa che non c’è nessuna gradazione alternativa. Non c’è alternativa esclude l’esistenza del bene comune, di ogni forma di commons. Il mercato, il libero mercato del denaro e delle merci è l’unica alternativa.
Il capitalismo digitale ha per prerogative la velocità, la precisione, la computabilità. La velocità odia la burocrazia come ogni altra forma di rallentamento. Il suo corollario è la flessibilità. Ma non la flessibilità dell’impresa, della produzione, al bene comune, ma la flessibilità del mondo all’agency algoritmica. Le sinistre occidentali che hanno una visione della pianificazione dell’intervento governamentale, sono percepite come un ostacolo, non soltanto dagli agenti del mercato, ma anche dai lavoratori/lavoratrici che ormai percepiscono la cosa pubblica come un impedimento della libertà, una burocrazia che rimanda soltanto alla propria riproduzione; la regolamentazione che frena tramite l’ultima parvenza di governo della società. Per questo le sinistre istituzionali sono state abbandonate dalle classi più disagiate. In realtà, lo spazio digitale ha bisogno di moduli da compilare, di un primo ordinamento delle queri, di regole da anteporre alla programmazione, insomma di burocrazia. Una burocrazia che crei un sottofondo equilibrato e ordinato dove la macchina calcolatrice possa operare. L’idea è una forma di modellizzazione delle cose e degli eventi; della loro riduzione a oggetti computabili. Occorre perciò incanalare i flussi in ingresso, operare partizioni e raggruppamenti. Occorre campionare il reale, il flusso analogico, per renderlo catturabile alla macchina. Questo lavoro produce molta burocrazia, la burocrazia è funzionale alla macchina digitale perché segmenta la continuità analogica del reale. Respinge il caos e produce una prima semplificazione del mondo; ne riduce la varietà a pochi modelli rappresentativi che alimentano la macchina computazionale e ne sono prodotti. Si riduce così ogni specie di diversità e si confonde il reale con l’assioma della mancanza di alternativa. Si assiste al paradosso che l’odio per la burocrazia, in realtà la alimenti.
Dentro l’alternativa, riuscire a pensare in termini di possibile alternativa, scatena l’immaginazione. Moltiplica gli oggetti difformi, lascia spazio alle sperimentazioni. All’obbligatorietà di dover fare presa sul reale. Produce un’estetica. Rilancia ipotesi di cambiamento. Riesce a collegare il passato al futuro, permettendoci di vivere il presente nelle sue infinte declinazioni. Produce la possibilità attraverso la quale accedere alla gratuità del gioco, alla inutilità del gioco.
La rete è un’incessante circolazione di messaggi tanto che il telefono usato per collegarvisi è percepito non più come manifestazione effimera di una merce, ma come appendice, protesi corporea, come attrezzo e non come gadget. La connessione alla matrice comunicativa permette il telelavoro che può anche essere smart working, ossia non soltanto a distanza ma anche non nell’edificio della produzione, avvitando i/le lavorator* intorno allo strumento tecnologico che proietta l’orario di lavoro al giorno intero per il fatto che non si separa in un segmento preciso il tempo del lavoro da quello libero dal lavoro. In questa temporalità ubiqua e senza segmentazione, il tempo non ha durata, è puntiforme; una serie infinita di adesso, dove fatica, applicazione, svago e riposo si alternano in uno spazio-tempo dilatato, fuori anche della storia, dentro un perpetuo presente.
Il lavoro che il dispositivo TINA, che la messa in opera di TINA produce, è annichilente, una forma di fatalismo politico che occupa tutto il sociale; rallenta l’immaginazione stessa; spenge le avanguardie artistiche e quelle politiche. Provoca noia. Ma una noia datata. L’infosfera è un luogo intensivo. I collegamenti alla matrice sono 24/7. Il flusso di stimoli non cessa mai. Non c’è tempo per una noia 2.0, ma come dice Fisher: «Nessuno è annoiato, tutto è noioso» (Fisher 2020 p. 229). Una noia che somiglia all’impotenza. Il tedio della ripetizione. Il desiderio che non riesce a lavorare perché costantemente distratto dalle merci che sostituiscono i suoi sogni.
Se per lavoro si intende quell’attività che serve a produrre gli oggetti che ci circondano, allora il lavoro nel contesto della contemporaneità capitalista si sta facendo deleterio. La crisi economica da sovrapproduzione si accompagna alla catastrofe ambientale. Ma nell’era del capitalismo digitale, nell’infosfera dominata dalle macchine, il paradosso si presenta ingigantito. «Invece di trarre profitto dalla possibilità di riservare l’ozio agli umani e destinare il lavoro alle macchine, ci troviamo oggi a dover competere contro di esse al punto di dover adeguare al loro livello le nostre richieste e le nostre aspettative.» (Campagna p. 15)
La moderna dottrina dello Stato fa rimando a concetti teologici secolarizzati, si diceva il secolo scorso. Filtrati dalla loro circolazione in flussi di opinione, detti concetti si naturalizzano. I principi teologici ed etici ai quali rimandano, vengono spurgati tramite l’uso comune; il bagno nella folla, dell’opinione ci restituisce il frutto che l’ineluttabilità del capitalismo ha seminato. L’ideologia, la credenza, il principio ultimo ostentano quella che è la predica che il capitale impone. Se non c’è alternativa al capitalismo, significa che il modello azienda che è il suo modo di essere, sarà l’ovvietà profusa in ogni settore della società, istruzione e sanità comprese. Sarà il bias di sottofondo di ogni algoritmo. Il bias è il pregiudizio che un insieme di dati possono contenere, che è una delle cose insite e non eludibili della raccolta dei dati.
«Il principio di realtà è ideologicamente mediato; si potrebbe persino arrivare a sostenere che sia la forma più alta di ideologia, quella che si presenta come fatto empirico, come necessità biologica o economica e che tendiamo a percepire come non ideologica» (Alenka Zupančič citata da Fisher 2018, p. 53). Il reale si coniuga così a partire dai modi della percezione, dai filtri e dai pregiudizi che lo informano. Il reale è così la forma interpretata dei reali determinati dai punti di vista. Modificare il reale significa allora mettere mano su questi reali, su questi punti di vista; significa in un certo senso smentire il modello aziendale del mondo, facendo scivolare i suoi costituendi fuori dalla presa ideologica che il capitale impone. Per esempio riportare la catastrofe ecologica alla vista contrapponendola agli oscuramenti ecologici della green economy. Si tratterebbe cioè di impedire di fare dell’ecologia una economia. Questo non dentro un confronto, dialettico o meno che sia, ma ponendo lo sguardo sulla sua manifestazione empirica, sul suo fatto di essere catastrofe, in definitiva che si manifesti in quanto catastrofe. Per chi ha a cuore le sorti dell’habitat umano occorrerà dire non soltanto che non è vero che non c’è alternativa al capitalismo, ma che il capitalismo stesso è la causa prima del disastro ambientale. Quando il capitalismo si esprime nella forma digitale, tutte queste problematiche non solo non vengono superate, ma sono occultate e rese inaccessibili alla vista umana. È un algoritmo che lavora e manipola i reali per restituirci una realtà alla quale, oltre a non esserci alternativa, può essere messo l’imprimatur della scientificità e della non fallibilità matematica del processo che si riproduce al loro riparo impedendo ogni tipo di decostruzione.
Il racconto capitalista, il “realismo capitalista” che dispiega la sua visione in ogni angolo del globo, ha veicolato bisogni e desideri verso le merci, tanto che Paolo Godani parla di “piacere che manca”. Ha ridotto il piacere a una mancanza, Fisher parla di “edonia depressa” che sarebbe la cifra caratteristica dei giovani, dei nativi digitali. «[La loro] incapacità di non inseguire altro che il piacere» (Fisher 2018, p. 59), quello imposto dalla società dei consumi; una specie di indolenza annoiata che denota gli studenti alle prese con l’involuzione dell’istituto scolastico che si trasforma da dispositivo disciplinare a erogatore di servizi. Se la società disciplinare imponeva comportamenti e rigide posizioni, gli studenti attuali stanno «stravaccati sui banchi e costantemente impegnati a chiacchierare o a sgranocchiare snack nel bel mezzo delle lezioni» (Ivi). La scuola/azienda sottostà a un rating che si basa su alcuni obiettivi uno dei quali è combattere la dispersione scolastica. La scuola riceve finanziamenti in base al numero degli studenti, tanto che difficilmente ci si potrà permettere di respingere uno studente. Ed ecco i risultati. In alcuni istituti tecnici o professionali nei quali ho insegnato, il livello di distrazione si faceva esponenziale a causa dei telefoni cellulari la cui presenza era tollerata. Il frame analogico della classe era abitato da fantasmi immersi in flussi digitali narcisistici, bramanti un like o un follower in più. Non a caso i social network più usati da questa generazione sono quelli visivi: Instagram e You Tube su tutti. In questo disordine percettivo le condivisioni sono in rete, non in presenza. In presenza c’è il silenzio, anche la musica non la si ascolta insieme, ognuno ha i suoi auricolari: lo spazio pubblico non ha risonanze. Lo spazio pubblico non lo si abita, lo si attraversa e basta.
La situazione creata dall’applicazione dell’assunto che dichiara che al capitalismo non ci sia un’alternativa è un pantano diffuso. Senza un modello, un’idea, un sogno ai quali fare riferimento è difficile immaginarci un orizzonte possibile, un cammino da intraprendere. Il capitalismo digitale ha atomizzato gli individui, li ha incarnati nel processo di produzione. Ha sottratto loro il tempo. Il tempo del lavoro si è dilatato e profuso. Il tempo del lavoro è diventato tutto il tempo. Il capitalismo digitale ti vuole accudire, ti confina per il tuo bene; rifugge le aggregazioni. Difficile fare massa critica. Il bisogno non basta più, il bisogno non ti fa più arrabbiare: il bisogno ti deprime. Occorre una narrazione, il dispiegamento del desiderio. Uscire di casa e tornare a fare “politica” (da oikos a polis).
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Federico Campagna, L’ultima notte. Anti-lavoro, ateismo, avventura, postmedia books, Milano 2015.
Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. K-punk/1, minimum fax, Roma 2020.
Mark Fisher, Realismo Capitalista, Nero, Roma 2018.
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Qui la XII
*Gilberto Pierazzuoli
Gilberto Pierazzuoli
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