La vita in diretta

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Per una Critica del Capitalismo Digitale – XXV parte

Memoria, lavori menomanti, lavoretti, bull shit jobs o lavori del cavolo, in un intreccio al quale il Capitale Digitale dà una veste in prima istanza proletarizzante per poi arruolare gli umani alla subalternità produttiva. Le rappresentazioni vitalistiche nella società dell’esposizione e delle merci sono in presa diretta e la presa è la morsa che il Capitale Digitale esercita sul modo di produzione, ma ancor più su quello della riproduzione e della cura.

La storia ha a che fare con la memoria. Gli umani hanno forme di ritenzione plurali. C’è una memoria automatica che presiede le funzioni involontarie che è un misto tra memoria genetica, un carattere specifico, della specie, e memorie automatiche acquisite, per esempio come si fa a camminare. C’è poi una memoria esterna ed è quella degli oggetti tecnici, delle tecnologie mnestiche che cambiano il paradigma dei saperi umani in maniera incisiva. La scrittura alfabetica, la lettura silenziosa, la stampa sono tre tappe fondamentali del predominio di una tecnologia della memoria su supporto esterno che hanno condizionato il modo di pensare degli umani.

Il tempo storico è sempre un tempo differito. Tra l’evento e la sua archiviazione c’è sempre una distanza temporale. L’evento precede la memoria. Ma con le tecnologie di riproduzione, foto, cinema, video e con la loro messa a disposizione, la loro condivisione, in particolare con la possibilità attuale delle dirette video, il tutto si amplifica. La storia non parla più del passato, del già avvenuto, parla dell’ora, dell’oggi, dell’hic et nunc, con un qui ubiquo dovuto alla potenza della rete. Lo spazio dell’evento si smaterializza e il tempo viene occultato perché non si ha più accesso alla selezione. Il concetto di memoria implica infatti lo scarto di quello che non si mette in memoria, implica la selezione. Se si dovesse ricordare tutto, non ci sarebbe memoria ma soltanto il semplice svolgersi degli eventi che si manifestano alla coscienza senza nessun filtro riproduttivo. Ma per lo stesso meccanismo, la diretta non è ad libitum, altrimenti la riproduzione sarebbe la semplice copia dello svolgersi della realtà, la sua mappatura in scala uno a uno, in definitiva la realtà stessa. Il divenire non è un evento; l’evento è una forma di discretizzazione del reale; è la selezione nascosta che fa sì che la memoria trovi il suo oggetto.

Con la scrittura la temporalità del racconto storico si mostra in tre momenti. Il tempo dell’evento precede il tempo del racconto, della rimemorazione, del mnestico come atto mentale, del richiamo alla coscienza. Poi, soltanto per ultimo, sopravveniva il tempo della lettura. Questa temporalità caratterizzava l’evento nelle culture alfabetiche. La dilazione temporale dell’evento, la sua manifestazione in tre tempi, lo poneva sotto lo sguardo critico dello storico e del lettore. Nella diretta in tempo reale si elimina questa temporalità che era anche tempo a disposizione per un giudizio critico, per una decodifica del messaggio che apriva alla possibilità della sua messa in discussione. Di fronte all’avvenimento in tempo reale, lo spettatore è molto più disarmato e inerme del lettore di fronte all’evento storico (quello racconto con la scrittura), diceva Stiegler (p. 153). La decodifica dell’evento che la memoria in forma di scrittura contiene, fa parte di quell’apprendimento che porta il soggetto a saper leggere e scrivere. Saper leggere e scrivere proviene da un percorso, lungo il quale si impara la pertinenza del linguaggio, il significato di ogni sintagma e la relazione che ogni sintagma ha con tutti gli altri. La codifica e la decodifica sono in qualche modo anche un approccio critico o, perlomeno, dei momenti nei quali questo approccio può essere messo in campo, anche perché si è in possesso degli strumenti per poterlo fare. La non temporalità della diretta, la mancanza di uno sforzo mnemonico consistente nel riaffioramento e nella sua rappresentazione, la mancanza degli strumenti tecnici per l’analisi critica della rappresentazione diretta dell’evento, portano lo spettatore a subire l’evento. «L’atteggiamento di fronte alla memoria esterna che custodisce l’evento è dunque radicalmente cambiato. Tutto è delegato: la capacità di codifica, la capacità di decodifica e, infine, la possibilità stessa di una critica» (Feyles, p. 74).

Si mette in crisi la possibilità di costruire una narrazione. Siamo immersi in un costante qui e ora dal quale dobbiamo estrarre il ritorno di piacere che ti aspetti dall’esperienza in rete. «Abbiamo bisogno di essere nutriti con briciole di media senza un contesto narrativo poiché è la gratificazione temporanea, istantanea, che dà piacere» dice Douglas Rushkoff.  La narrazione è ridotta a un frame, una cornice nella quale, se preesistente, le briciole semantiche della rete possono trovare riconoscibilità e quindi accoglienza nelle bolle internettiane. Il qui e ora, la vita in diretta, impedisce la formazione di una narrazione ma può vivere all’interno di una narrazione già data e contribuire alla sua conservazione; per questo, questa rete è – al contrario di quello che si dice – nemica dell’innovazione.

Se la capacità di padroneggiare lettura e scrittura ci ha messo più di due millenni per una sua diffusione allargata (la stampa), altri cinquecento per una diffusione generalizzata (la scolarizzazione di massa), è chiaro che i nuovi media, sicuramente aperti all’uso anche produttivo e non di solo consumo, sono attualmente padroneggiati da pochi. La produzione dell’informazione è in realtà in mano a grandi aziende, elemento questo che comporta una forma di omologazione. Il pharmakon platonico, il dubbio che Socrate esprime sulle potenzialità dei sistemi di memoria esterni ai corpi delle donne e degli uomini, rimanda all’operazione che le società mercantili hanno compiuto nei confronti del sapere vernacolare che secondo Illich e Pasolini hanno stravolto mettendo a tacere la cultura popolare -ricca di saper fare – attraverso un’operazione che ha portato a una omologazione costruita tramite i media di massa a basso sforzo di decodifica come quelli visivi (la TV), che poi il media digitale acutizzerà non poco.

Il Capitale Digitale porta a compimento questa operazione attraverso strumenti che operano su più ambiti. L’automazione della produzione ha diminuito il bisogno di manodopera in certi settori della produzione manifatturiera ma anche in quello dei servizi, della comunicazione e della informazione. Questo significa che l’operazione di incorporazione nella macchina dei saper fare da parte del capitale, hanno spoliato e messo a tacere quei saperi, ma li hanno anche sostituiti non con nuovi incarichi che le nuove produzioni hanno permesso, ma con quelli che Graeber chiamava. “Bull shit jobs”, lavori senza senso o lavori di merda che la proletarizzazione provocata dalla rivoluzione digitale ha prodotto.

Questo fenomeno rimanda a più problematiche. Un’operazione culturale per la quale il lavoro è dispensatore non tanto del salario, ma della dignità individuale per la quale si assiste al paradosso per il quale gli individui avrebbero bisogno di un lavoro e non di un salario. Se lavoro e salario andavano di pari passo costituendo un assunto acquisito dell’economia classica, adesso si dà la possibilità di pensare a lavori senza salario. Vedi tutte le frange dell’offerta di lavoro in forma di stage o – in Italia- l’alternanza scuola lavoro. Se la consistenza del salario in qualche modo corrispondeva a quel minimo indispensabile per la riproduzione della forza lavoro del singolo e dei familiari che da lui dipendevano (cibo, vestiario, abitazione e – in maniera occulta – del lavoro domestico e di cura), adesso si può parlare di lavoretti: la gig economy di cui abbiamo già parlato e che rimanda a forme ossimoriche di dipendenza da indipendente, con subordinazioni a ritmi e comportamenti che sfociano nel taylorismo perfetto, con l’uso diretto del corpo totalmente assoggettato alla logica delle piattaforme digitali (le App che controllano i percorsi, le soste, le pause dei Riders o degli autisti di Uber).

La logica industriale prima e quella digitale in maniera più evidente, hanno incorporato al processo produttivo macchinico il saper fare umano. Le donne e gli uomini sono ridotti a quella che si chiama la nuda vita, quella che – in una forma di pensiero antropomorfo – si sarebbe potuta chiamare l’animalità originaria degli umani. La nuda vita e l’umano proletarizzato. Spogliato di tutto, anche di quei diritti di base che lo stato doveva garantire ma che la privatizzazione del welfare, come la scuola, la sanità e i beni comuni, sta provocando. Le piattaforme digitali sono enclosures (recinzioni) attraverso le quali gli animali umani e quelli non umani compresi i loro mondi, sono diventati pozzi estrattivi al servizio del capitale.

L’operazione che sottomette tutto al mercato, lo ha insinuato ovunque, anche là dove il senso comune, il sapere collettivo, il saper fare, il saper dire di base; quelle cose che fanno degli umani quelli che sono, sono diventate le professioni che Illich chiama menomanti, i lavori che non paiono lavori di Graeber. Il coach individuale, l’addetto alle relazioni sociali. Il produttore di libri o di tutorial, dove si impara come comportarsi con il/la partner, come farsi il nodo alla cravatta, in definitiva ad essere gli uomini e le donne disposte/i, costrette/i, a pagare per uno svezzamento che diventa così generatore di profitti. È l’enclosure della cura di sé che non è più privata ma che è cosa pubblica gestita ormai dal privato: un universo ossimorico che testimonia l’invadenza del Capitale Digitale di questa tarda modernità. Una varietà di tipologie anch’esse estorte al sapere comune che non ha più tempo per allevare i figli e le figlie. È quella proliferazione di offerte che di ricco non hanno niente perché contengono soltanto quello che era già nostro. È la proliferazione che ti profila, le innumerevoli categorie di gusto sulle quali lavora l’algoritmo di Netflix. L’apparente abbondanza di toni di colore che sembrano darti la libertà di scelta che la Cuba sotto embargo sembra negare. A Cuba, se vuoi colorare le tapparelle di giallo, non hai la “libertà” di farlo, nei negozi in quel dato periodo si trova soltanto il blu. Allora i turisti provenienti dalla società dello spreco dicono che lì non c’è la libertà perché non pensano al fatto che altrove la libertà ci sia soltanto perché si può scegliere, perché ci si può tuffare nell’esuberante mostrarsi del tripudio delle merci, ma non per tutti. C’è chi non ha non soltanto la possibilità di scegliere il colore, ma non ha la possibilità di accedere a nessuna vernice, gialla o blu che sia.

È questa omologazione differenziata soltanto nelle sfumature che il pensiero digitale mercantile ti obbliga a sopportare. È questa omologazione pervasiva alla quale devi sottostare. Ma, come abbiamo visto, non è soltanto attraverso strumenti di condizionamento che l’omologazione prende corpo. È l’algoritmo che non soltanto ti vuole convincere quello che al Capitale Digitale – padre despota degli algoritmi agenziali – interessa, ma anche proverà a farti fare, togliendoti le alternative, tutte quelle alternative che gli algoritmi partoriti da questo padre-padrone, non sanno trovare.

Sarà sempre più difficile fare sentire una voce critica; sarà sempre più difficile formulare pensieri critici. Il pensiero complesso trova delle difficoltà a essere veicolato su questa tipologia di media digitali, il pensiero delle libertà dei viventi, del diritto alla festa, al gioco, alle sperimentazioni esistenziali che aprono all’eccesso, al superamento dell’utilità che rimanda ai bisogni ma tarpa il desiderio. La libertà di intraprendere strade nuove capaci di esplorare una dimensione più che umana, oltre la nuda vita. L’unicità della creazione artigiana e artistica, la sorpresa connessa all’unicità. Un’omologazione impoverente.

L’analfabetismo di ritorno è il frutto di questo stile di vita. Dell’intrattenimento forzato che reclamano gli algoritmi del capitale. Al lavoro 24/7, al consumo 24/7 in una commistione temporale che non ha ritmi riconoscibili. Non c’è più il tempo per fare qualcosa di specifico. Il tempo non basta. Il tempo viene metodicamente sottratto. Non c’è storia. Il passato non si ha il tempo di ricordarlo, non ci ricordiamo più come fare a ricordare. La vita è in diretta e il futuro è soltanto il prossimo frame, quello che l’algoritmo ha deciso.

La vita è in diretta, ma noi non riusciamo a trovare posto. Lo spaesamento è la sensazione di non sentirsi a casa propria, di non avere un luogo per raccogliersi. Lo spaesamento è una forma di agorafobia. Una sensazione di impotenza diffusa. Un accanirsi terapeutico con continue ricadute. Il debito, la colpa, il passo più lungo della gamba. Il sistema della valutazione algoritmica ti mette in discussione. Controlla il tuo operato e ti fa sentire sempre sotto esame. Certo così riesce a spremere tutto il possibile, ma il disagio è palese. Tenersi, è allora un lasciarsi andare tra depressione e euforia. Trovare sponda nei social, reclamare il diritto all’ignoranza contro quelle elite culturali che mal volentieri lasciano la parola. Anche le notizie palesemente false, trovano uno spazio perché attirano la tua rabbia, perché ti puoi finalmente arrabbiare. Come in Parasite di Bong Joon-ho, dove i poveri hanno un odore che i ricchi non sopportano. Molti pensano infatti che troppi abbiano la puzza sotto il naso, ma anche che se ne dovranno pentire.

C’era una volta il mondo occidentale, il nord del pianeta. Gli abitanti di quel mondo era la classe media, non era – almeno sulla carta o nel senso comune- il massimo per tutti, ma ci si poteva stare. Ma ecco le politiche di austerity, le mancanze di alternativa, una politica che parla altri linguaggi. Il capitalismo estrattivo che punta ai beni comuni e che schiavizza sulle piattaforme di delivery. Molti lo chiamano progresso, ma molti subiscono quel progresso. Il mondo cambia, dicono, ma tu non capisci perché l’apertura al mondo deve essere un’apertura a tutti che sembra avvenire a tuo discapito. Allora pensi che non ci debbano essere aperture. Che vanno bene i muri che possano tenere fuori gli altri, qualsiasi altro. La tua precarietà ormai la percepisci come la tua insicurezza, perché le cose hanno preso una direzione sbagliata. Perché adesso sono in discussione i pochi privilegi che avevi.

Un coacervo di risentimento, di pensieri di pancia, di controlli asfissianti ai quali tenti di ribellarti, ti fanno eco sulla rete. La rete privilegia queste sensazioni. La vita in diretta contiene tutto questo. In rete non ci possono essere troppe mediazioni. I nazisti bruciavano i libri. Il media elettronico è un’altra tecnologia, è rappresentazione pura, senza filtro e senza rete. Anch’esso vuole fare a meno dei libri; è oltre i libri, è oltre la scrittura. È contro ogni ritenzione intimista, è come il wrestling, una finzione che avvera le pulsioni più basse e che poi sia per finta, meglio! Così possiamo lasciarci andare senza troppi sensi di colpa. Il wrestling è la rete, è questo lasciarsi andare. Il wrestling sono gli spettatori e i figuranti sono soltanto una esteriorizzazione. La vita in diretta che il Capitalismo Digitale ci vuole far fare è tutto questo.

Continua…

Bernard Stiegler, La technique et le temp, vol. 2 : La désorentation, Galilée, Paris 1996

Martino Feyles, Ipomnesi. La memoria e l’archivio, Rubbettino, Catanzaro 2013

Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Red, Milano 1996

Qui la I parte, Qui la II, Qui la III, Qui la IV, Qui la V, Qui la VI, Qui la VIIQui la VIIIQui la IXQui la XQui la XIQui la XIIQui la XIIIQui la XIVQui la XVIntermezzoQui la XVIQui la XVII Qui la XVIIIQui la XIXQui la XXQui la XXIQui la XXII, Qui la parte XXIII, Qui la XXIV

*Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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