Per una critica del Capitalismo Digitale – Parte XXVII
A Erewhon sono proibite le macchine. Ne è proibito il possesso, l’uso e la fabbricazione; di ogni tipo di macchina. Ma cosa sono le macchine?
Si tratta qui di mettere in atto un’operazione simile a quella che si fa per determinare il proprio dell’uomo, per sviscerare quello che si potrebbe chiamare il processo di ominazione. La differenza è che in questo caso l’ente è la macchina. Se l’operazione sembra ambiziosa, gli erewhoniani risolvono il problema affidandosi al ministero appositamente creato della “Ambiguità e Evasività”.
Così come parti organiche si prestano ad essere ingranaggi o parti di macchine più complesse e macchine o attrezzi insenzienti siano parti indispensabili di apparati organici, così che, nello stesso modo, «il guscio [di un uovo] è uno strumento per contenere l’uovo come il portauovo è uno strumento per contenere il guscio» (p. 173), l’ambiguità naturale/artificiale veniva data per scontata, ma non per salvaguardare le macchine, ma per renderla insignificante all’interno della discussione tra favorevoli e contrari al loro uso. Il fulcro di quella discussione ruotava principalmente intorno a un problema e a una paura: l’evoluzione macchinica e il sorpasso evolutivo tra le macchine e gli umani. «Le macchine più altamente organizzate sono creature non di ieri, ma addirittura degli ultimi cinque minuti, oserei dire, di fronte alla storia dell’universo» (Ibidem). Una loro evoluzione avrebbe perciò avuto ritmi incalzanti. Per questo gli anti macchinisti proposero e imposero la distruzione di ogni specie di macchina. I favorevoli alle macchine, risposero facendo riferimento all’incapacità evolutiva della macchina in particolar modo in quei campi che sembrerebbero precipui dell’essenza umana e ai quali, alla macchina, sarebbe negato l’accesso. La discussione si spostò su un terreno oserei dire ontologico nel quale si presero in considerazione tutti quegli aspetti che diversificano gli umani dalla macchina. Una discussione che perciò oscillava tra argomenti di tipo vitalistico e meccanicistico tipo «l’attitudine della macchina a render conto dei funzionamenti dell’organismo, ma la sua inattitudine radicale a render conto delle sue formazioni» (Deleuze e Guattari, p. 322).
Nel racconto di Butler, nelle tesi delle due parti in lotta a favore o sfavore della macchina, non c’è in gioco il proprio dell’uomo, ma “proprio” la possibilità che qualcosa pensato altro dall’uomo stesso possa invece avere dei caratteri, quei caratteri, che come specie ci siamo attribuiti. C’è infatti un potenziale che non è possibile escludere attraverso il quale, così come si sono sviluppate forme diverse che caratterizzano e distinguono l’intelligenza degli animali dal modo di essere dei vegetali, si possa manifestare – o evolvere per un ramo a se stante – una nuova forma di intelligenza o di qualcosa di simile (ma anche diverso che un pensiero antropocentrico non riesce ad immaginare) che sarebbe l’intelligenza e la coscienza delle macchine.
Ecco la “coscienza” fare capolino nel comportamento vegetale là dove una pianta carnivora discerne tra la preda e una goccia di pioggia o una scheggia di legno. E a coloro che volessero obiettare che la pianta agisca meccanicamente nel cibarsi della mosca si potrebbe rispondere che nello stesso modo un osservatore esterno potrebbe pensare che anche l’uomo si cibi meccanicamente dell’agnello. Così dicono i fautori della potenza evolutiva delle macchine quando si contesta la presunzione per la quale la crescita delle piante avverrebbe meccanicamente come per l’impulso di una molla della quale esse non avrebbero coscienza, al pari però di quanto di fatto avviene anche per gli esseri umani per i quali «un ragazzo sano [non] può […] fare a meno di crescere, quando mangia, beve, ed è ben coperto» (Butler, p. 174). Ed è comunque curioso che appunto la spinta vitalistica sia esemplificata da una molla che esprime normalmente il carattere meccanico delle possibilità di movimento, come se le ragioni meccanicistiche e quelle vitalistiche in qualche modo si confondessero. Ecco così una patata che si pone degli obbiettivi che poi persegue coscienziosamente (p. 175), con l’avvertenza di non attribuire delle mancanze quando, quel soggetto che le dovrebbe avere, non le manifesterebbe attraverso delle espressioni chiassose: il silenzio della patata non ci può permettere di presupporre l’assenza della coscienza; la mancanza del grido non comporta di per sé l’assenza del dolore.
Con disgressioni che mezzo secolo prima (il romanzo è del 1872) preludono le teorie dell’antropologia filosofica europea: «Le cose che noi riteniamo puramente spirituali non sono forse mutamenti di equilibrio in una serie infinita di leve, a partire da quelle troppo piccole per essere visibili al microscopio fino ad arrivare al braccio dell’uomo e agli strumenti di cui si serve» (p. 176). Oppure, all’opposto, il fatto che le machine non siano altro che prolungamenti dell’organismo: «Gli animali inferiori tengono le membra legate al corpo, mentre molte delle membra umane sono sparse e disseminate qua e là per il mondo» (p. 198). Ma Butler va ancora oltre, non soltanto le macchine prolungano l’organismo, ma sono realmente membra e organi dei quali gli uomini si appropriano e dei quali fanno uso secondo criteri di distribuzione sociale per i quali la povertà, l’impossibilità di appropriazione di ulteriori strumenti, di ulteriori appendici, rende la povertà stessa l’equivalente di una mutilazione. E, sulla sponda opposta, suppone anche che gli organismi siano macchine, ma aggiunge, «che contengono una tale abbondanza di parti da dover essere paragonati a pezzi diversissimi di macchine distinte che si riconducono le une alle altre, che si congegnano le une sulle altre» (Deleuze e Guattari, p. 323). In questo modo si mette in discussione l’unità stessa dell’organismo, ma anche l’unità strutturale delle macchine. Si apre quindi la possibilità di poter ipotizzare la capacità riproduttiva delle macchine, sia in chiave evoluzionistica, sia accettando la mediazione umana la cui funzione sarebbe biologicamente simile a quella di organismi saprofiti, o ricalcata ad esempio su quella per la quale alcuni insetti, veicolando i pollini, fanno sì che la riproduzione possa arrivare a buon fine (simbiosi).
Inserite nel racconto anche delle brevi considerazioni per le quali le macchine caratterizzerebbero anche l’anatomia umana che non sarebbe altro che un accrocchio per un verso ordinato di macchine funzionali (l’organologia di Stiegler): l’occhio sarebbe dunque una macchina per vedere, la cui funzione sopravviverebbe per un certo tempo alla morte del suo possessore. Considerazione questa che svincola gli organi-macchina dall’occorrenza della morte. Si ha qui una commistione tra uomo e macchina: «E se non divenisse tutt’uno con la macchina, se non rendesse la macchina parte e frammento di sé, non potrebbe» (p. 179) vedere. Si ipotizza cioè l’esistenza di un senso interno che rende conscia la sensazione veicolata dall’occhio (dalla macchina per vedere), l’esistenza cioè di un sé (che in questo caso può essere mortale) al quale spetta il coordinamento delle innumerevoli macchine-organo (quindi anche organiche, ma ipoteticamente anche indifferenti alla morte) che popolano la sua anatomia.
Ma il rapporto uomo macchina va oltre la crescita evolutiva di quest’ultima e verso direzioni per le quali sono ipotizzabile due conclusioni. Entrambe partono dal presupposto di una subordinazione originaria della macchina all’uomo: la macchina nasce per volontà umana ed è inserita in un contesto nel quale domina lo scopo di servire l’uomo e di alleviargli le fatiche. Anche la sua ipotetica evoluzione si muoverà dunque in questo senso. Ma qui si produce uno rovesciamento. L’uomo delegando sempre più compiti alla macchina, ne diviene sempre più dipendente, sino a poter diventare completamente schiavo di essa. Da notare come questa considerazione di Butler (o degli anonimi redattori erewhoniani del “libro delle macchine”) assomiglia alla dialettica hegeliana tra servo e signore. Là dove il servo, divenuto indispensabile alla sopravvivenza del signore, rovescia i rapporti di forza e si pone in modo opposto di fronte al signore ora bisognoso dei contributi del servo. Qui il mondo di Erewhon anticipa anche la considerazione che un secolo dopo Illich farà a proposito della possibile ipertrofia delle macchine per la quale l’uomo può diventare schiavo della macchina e la società iper-industriale divenire irrispettosa di scale e limiti natural/culturali. Illich scrive che c’è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere: l’uomo diviene l’accessorio della megamacchina, un ingranaggio della burocrazia. Quando la macchina eccede la sua essenza strettamente strumentale e funzionale a quella che Illich chiama la convivialità, allora l’uomo si dedica alla produzione/riproduzione, al mantenimento e alla cura di un parco macchine che lo espropriano della sua essenza conviviale e di relazione. Un uomo condannato al consumo perché si è dimenticato la pertinenza d’uso. «Superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota» (Illich).
Ma può una macchina provare dei desideri? La domanda è mal posta:
«Una volta distrutta l’unità strutturale della macchina, una volta deposta l’unità personale e specifica del vivente, un legame diretto si mostra tra macchina e desiderio, la macchina passa nel cuore del desiderio, la macchina desiderante e il desiderio macchinato» (Deleuze e Guattari, p. 325)
Macchine desideranti, macchine organiche, tecniche o sociali sarebbero la rappresentazione dello stesso fenomeno, la stessa macchina organizzata secondo criteri che ne contestualizzano l’apparenza. La loro funzionalità è soltanto un’articolazione, un’applicazione, un’evenienza, possibile certo, ma comunque periferica. Pensare un funzionalismo in termini di specie (Deleuze e Guattari parlano di funzionalismo molare) si dimostra impossibile. In periferia o ad un livello di particolarità più pronunciata, in una dimensione inferiore, quando ad esempio montaggio e scopo coincidono, soltanto qui il funzionalismo, l’intenzione stessa, hanno senso. Le macchine desideranti, la macchina molare, «al contrario non rappresentano nulla, non significano nulla, non vogliono dire nulla, e sono per l’appunto quel che se ne fa, quel che si fa con esse, quel ch’esse fanno in se stesse» (Ivi, p. 327). Le cose non esistono, esistono soltanto i fenomeni.
Mettere in discussione il rapporto tra uomini e macchine a partire dall’ipotesi di una capacità evolutiva delle macchine, porta a un confronto che al di là di un semplice elenco delle particolarità dei due oggetti che ne determinino le qualità, tenderà a svolgersi sul terreno dell’incontro-scontro che le peculiarità evolutivamente sopraggiunte renderanno possibile. Il primo carattere che viene preso in considerazione è proprio la capacità evolutiva della macchina, attributo che una volta acquisito potrà aprire il campo appunto alla possibilità di un confronto serrato. Se gli animali (e quindi anche gli uomini) sono il prodotto dell’evoluzione che ha scartato le opzioni possedute dai meno adatti, e per fare questo sia occorso che certe caratteristiche facessero parte di un patrimonio ereditabile, occorrerebbe dunque che la macchina, per evolversi, sia in qualche modo capace di riprodursi. Per inciso, anche in una visione evoluzionistica alla Lamarck per la quale l’adattamento all’ambiente è una spinta che agisce direttamente sulle caratteristiche anche morfologiche dell’individuo, per divenire un’acquisizione della specie, occorre egualmente che questi caratteri acquisiti siano trasmissibili ai discendenti. E questo, come abbiamo visto, gli Erewhoniani non lo possono escludere. Dato per scontato che dal punto di vista strettamente fisico le performance delle macchine possano essere superiori a quella umane, il piano di confronto sarà quello determinato dalla capacità evolutiva degli aspetti culturali. Il discrimine ancora una volta è il linguaggio che oltre a permettere la comunicazione permette anche la trasmissione delle scoperte acquisite, permette cioè l’insegnamento. Ma per linguaggio si intende allora non soltanto la capacità di articolare dei suoni o di mettere in memoria delle conoscenze o dei dati; la capacità di veicolare informazione attraverso un qualsivoglia canale composto dalle sostanze o dai fenomeni i più svariati possibili (elettrico, chimico, magnetico, idraulico, verbale, ecc.), si tratta fondamentalmente di sviluppare un linguaggio che permetta la comunicazione, il rapporto. Oppure che il rapporto, l’incontro, stimoli la nascita del linguaggio. Questo avviene se l’incontro non avviene con il medesimo, ma con l’altro da sé che comunque si riconosce come simile. Di nuovo tutte le considerazioni ruotano attorno alla coscienza, di modo che gli attori del confronto uomo-macchina siano in qualche modo due soggetti. Qui il concetto di soggetto non implica la sua completa indipendenza, che non è facilmente dimostrabile nemmeno per gli umani, ma il senso grammaticale che lo pone come l’attante dell’azione descritta dal predicato verbale, la sua capacità performativa. In questa chiave è perfettamente pensabile la macchina soggettiva, una macchina che compie azioni o che comunica e raccoglie segnali di ritorno (feedback) che equivalgono ad avere coscienza dell’azione stessa, o quello che in informatica si chiama l’autoapprendimento algoritmico. La gerarchia che può determinare i gradi evolutivi e le performance di cui è capace ogni specie avviene per ambiti diversi. Se l’uomo con le sue capacità linguistiche, con le sue doti donategli dal dio della genesi che pone Adamo su un piano di superiorità ontologica (qui addirittura teologica) attraverso le quali egli “nominerà” gli animali, darà loro un nome e nel fare questo li subordinerà; se l’uomo è dunque la specie dominante, è anche perché tra tutte le specie egli possiede la gamma più vasta di marche percettive che determinano l’ampiezza dell’ambiente nel quale l’uomo è immerso: «tutti i soggetti animali, i più semplici come i più complessi, sono adattati al loro ambiente con la medesima perfezione. All’animale semplice fa da contraltare un ambiente semplice, all’animale complesso un ambiente riccamente articolato» (Uexkull, p. 49). Dove la complessità dell’ente è determinata dalle “marche” percettive e di interrelazione di cui è dotato (agency e feedback). L’evoluzione della macchina dovrà dunque realizzarsi tramite l’acquisizione di organi di senso con i quali esplorare l’ambiente che poi è determinato appunto dalla gamma di “marche” percettive detenute dal soggetto. Si prospetta così una possibilità ancora che a Erewon non fu presa in considerazione: l’esistenza di un soggetto ibrido, un ibrido animale umano/non umano/macchina le cui “marche” percettive coprano aperture al mondo e faciture di mondi inesplorate.
«Viviamo all’interno di questo vortice iper-costruttivista, in questa macchina “caosmica” nella quale ci si costruisce e si è costruiti nel medesimo istante e nella quale le possibilità concrete oltrepassano qualunque immaginazione» (Kulesko, p. 47).
Erewhon rinvia non solo al No-where (Erewhon scritto al contrario: in nessun luogo), ma anche al Now-here (qui e ora), L’epifania della macchina, dell’ente performante ibrido, del conflitto macchinico, del divenire ibrido, è allora il non luogo attuale: un’impossibilità spaziale che è un ovunque e una temporalità centripeta che collassa nell’immediato.
Continua…
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Samuel Butler, Erewhon, Milano 1975
Gilles Deleuze Felix Guattari, L’anti Edipo, Einaudi Torino, 1975
Ivan Illich, La convivialità, Red edizioni, 1993
Jacob von Uexkull, Ambienti animali e ambienti umani, Quodlibet, Macerata, 2010
Claudio Kulesko, Macchine compositive. In: a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli, Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, Ombre corte, Verona 2020.
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*Gilberto Pierazzuoli
Gilberto Pierazzuoli
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