Giochi di prestigio: il lavoro che scompare alla vista

Per una critica del Capitalismo Digitale – XXVIII parte

Parlare di schiavi del XXI secolo sembra una esagerazione se si pensa alla condizione delle popolazione africane trasferite a forza nelle Americhe, ma il fatto di essere costretti a svolgere mansioni nelle quali il controllo taylorista dei gesti, la subordinazione dei corpi e quella dell’intero tempo esistenziale è all’ordine del giorno se non la chiave imprescindibile attraverso la quale si possono realizzare profitti, dimostra che il paragone ha un suo fondamento. Del resto una piattaforma di “micro sourcing” delle Filippine, secondo Casilli (p. 212) aveva espressamente usato il termine schiavo: «i tassi di remunerazione degli schiavi virtuali sono generalmente molto più bassi rispetto a quelli dei lavoratori delocalizzati» si trovava scritto nel suo sito.

Ci si trova di fronte a uno scenario dove gli umani sono coinvolti in mansioni lavorative esternate e delocalizzate, dove spesso i lavoratori sono donne e bambini ai quali non è dovuto un salario che garantisca quella sussistenza che viene messa insieme, e a stento, dal coinvolgimento lavorativo di tutti membri della famiglia. Sopravvivenza ridotta ai minimi termini, pura sussistenza, che permette soltanto la riproduzione della nuda vita e per di più in paesi in cui il costo della vita è molto basso. Nei paesi delocalizzatori la logistica è il nodo nel quale l’abbattimento dei costi trova nella digitalizzazione dell’organizzazione la chiave di volta. In questo senso il delivery, la gig economy, ne è un esempio lampante, comparto che vede impegnati i giovani delle periferie urbane, i migranti, i sans papier, gli espulsi dalle catene produttive tradizionali, accomunati da una patina di neocolonialismo interno ed esterno che si distribuisce sulle loro esistenze, questo sia per le caratteristiche della retribuzione ma anche dalla provenienza “coloniale” di molti degli addetti. Le lotte stesse sviluppate in questo comparto, quello dei dipendenti della logistica, dimostrano la centralità di queste attività nel confronto capitale lavoro. E’ proprio in questo ambito che la domanda e la ricerca di innovazione tecnologica si fanno più stringenti. Per questo l’auto che si guida da sola è agognata più dal capitale che dai consumatori, perché non è soltanto l’auto, ma il furgoncino, il drone, che renderanno inutile il lavoro umano restituendo un esercito sempre più vasto di dannati della terra disposti a tutto per accedere a un pezzo di pane. Flussi che si riverseranno in nuovi settori della produzione nati per sfruttare questa nuova condizione. La lotta di classe la sta facendo il capitale e la sta facendo bene.

Il punto sul lavoro nell’epoca della piena automazione, in quella del Capitale Digitale, gira spesso sulla questione dell’estinzione del lavoro, sul fatto cioè che le macchine – comprese quelle semplicemente algoritmiche – soppianteranno il contributo umano alla produzione. Uno dei cardini intorno al quale ruotano le questioni sull’automazione e quelle in particolare sull’avvento del digitale, riguarda infatti l’incidenza di questi fenomeni sull’occupazione. Ci sono narrazioni che rimandano a una sostituzioni del lavoro umano da parte delle macchine (hardware e software comprese: spesso certi lavori sono svolti da algoritmi e non da automi materiali) con la resistenza che questo provoca. Ce ne sono altre che dicono che l’espulsione dal lavoro riguarda e riguarderà certe mansioni, ma verrà compensata dalla creazione di altri lavori corrispondenti a nuovi bisogni che l’automazione stessa ha provocato. Quello che è certo è che una trasformazione del lavoro manuale e analogico è in corso e che una parte non indifferente viene giocata dall’avvento della digitalizzazione della produzione e, spesso, del consumo.

C’è certamente una sostituzione della forza lavoro umana nella produzione manifatturiera con macchine che svolgono sia i compiti gravosi e pericolosi, ma anche, in termini più generali, per aumentare i livelli di produzione e abbassare il costo complessivo del lavoro all’interno di quella tendenza intrinseca che riguarda l’uso dell’innovazione connessa ai metodi produttivi. La macchina ha sempre incorporato il lavoro umano anche nella forma del sapere, del saper fare, che il capitale magicamente trasforma nel lavoro morto contenuto nella macchina. Marx, a questo proposito, parlava di general intellect non riferendosi allora al cosiddetto lavoro cognitivo, ma proprio a quel sapere di cui parlavo sopra. Ma, nella fase attuale, quella dell’avvento delle tecnologie digitali, il fenomeno si fa più sfumato e contorto. Intervengono altri modi della produzione della ricchezza e della messa a valore con gradazioni fenomenologiche ed evidenze di intensità variabile, sino ad arrivare alle produzioni immateriali con costi produttivi e distributivi tendenzialmente nulli. Ad esempio le piattaforme di sharing (Uber, Airbnb) ma anche quelle di servizio o semplicemente distributive come quelle musicali o di intrattenimento digitale dove la transazione si riduce a forme tra l’affitto e il noleggio perché in realtà non si acquista niente, soltanto il diritto all’uso (regolamentato) e dove la proprietà è quella, per esempio, di un prodotto dell’intelletto che le piattaforme digitali hanno acquisito: l’unica transazione di proprietà è infatti quella tra l’autore e la piattaforma. Da tenere presente anche “l’affitto” di capacità computazionali da cloud con svariati servizi connessi. L’attenzione non va però messa su questo trasferimento/affitto, per altro già presente nelle consuetudini mercantili precedenti, ma sul sistema distributivo che oltre a essere immateriale, è proposto con metodi “personalizzati” basati sull’inserimento e creazione di target specifici di consumatori nella creazione del prodotto dove i consumatori stessi sono utilizzati anche come fornitori di materia prima (qui prende campo il detto che se è gratis il prodotto sei tu). Tra le capacità computazionali fornite da Amazon Web Service, c’è anche Amazon Mechanical Turk, che si rifà al turco meccanico giocatore di scacchi che non sapeva giocare ma che nascondeva al suo interno un nano. Siamo all’automazione assistita da una folla di micro lavoratori sparsi nella rete che la piattaforma di Amazon mette a disposizione di aziende e privati per fare compiti che le macchine non sanno fare o che sarebbe più costoso far fare alle macchine, si tratta di quello che viene chiamato crowdsourcing. A micro lavoro micro compenso, anche questa è una fonte di reddito complementare (la remunerazione è in media di meno di 2 dollari l’ora) che con la riduzione dei lavori salariati a tempo indeterminato, rimane una risorsa per i turchi del click. C’è un lato paradossale: ogni 45 minuti l’addetto viene interrotto per compilare un test captcha che dimostri che il lavoro svolto è stato fatto da un umano e non da un robot.

Ho già parlato della trasformazione del valore etico del lavoro in rapporto al tempo libero, si tratta di una trasformazione che permette di scindere il rapporto stretto e biunivoco tra lavoro e salario, introducendo forme di lavoro come gli stage non retribuiti, i cosiddetti lavori fatti a perditempo e altri comportamenti occultamente produttivi, come quelli degli utenti sulle piattaforme sociali che forniscono in prima persona i dati usati per mettere a punto i servizi e le offerte da vendere spesso agli stessi “produttori”, operazioni che si basano su forme più o meno evidenti di occultamento del lavoro. Pensiamo a tutta la produzione di merci e di servizi per la cura e la riproduzione della specie e della forza lavoro, che passa per questo occultamento: lavoro domestico, istruzione, auto salvaguardia della salute. Rientrano nei lavori occultati alcune mansioni che il produttore scarica sul consumatore come quelle delle casse automatiche dei supermercati. L’acquisto di un biglietto e la relativa stampa a carico del consumatore. I bancomat e i distributori di benzina fai da te e ogni distributore automatico. Il concetto stesso di self service implica una mansione svolta dal consumatore al posto del produttore/venditore. Si tratta in alcuni di questi casi del cosiddetto “lavoro del consumatore” che viene coinvolto anche perché in alcuni casi sembra che si tratti di un gioco, di una forma di partecipazione o di realizzazione e cura personale. È la capacità che il capitale ha sempre messo in atto e cioè quella di riuscire a sfruttare «al massimo le logiche di dipendenza che caratterizzano gli ecosistemi umani situati attorno – e non all’interno – del classico “luogo di lavoro”» (Casilli p. 47). Si creano in questo modo una serie di attività alcune non remunerate, altre sottopagate, altre ancora remunerate in modo flessibile.

Questi nuovi approcci nascono dalla messa in atto di due strategie, per altro già esistenti in precedenza: la standardizzazione e l’esternalizzazione dei processi produttivi. «La riduzione del gesto produttivo a una sequenza standardizzata di attività parcellizzate lo rende compatibile con le procedure automatizzate» (Casilli, p. 46) proprio per il fatto che la produzione digitale può essere realizzata ovunque, anche in più posti. Si ha così che una parte importante delle attività produttive di certe piattaforme digitali viene spesso sminuzzata per dar luogo a quelle micro mansioni svolte dagli schiavi del clic che lavorano nelle farm asiatiche o che lo fanno da casa per pochi centesimi a clic. Siamo dentro una situazione particolare. La flessibilità forzata, la esternalizzazione e la delocalizzazione della produzione parcellizzata fanno diventare competitivo il lavoro umano compensato con micro pagamenti (pochi centesimi di dollaro a click). Anche in occidente disoccupati o sotto occupati, studenti, giovani in attesa della prima occupazione o con occupazioni part time, casalinghe per mancanza di alternative, si rendono disponibili ad accettare questo tipo di impieghi. Il costo del lavoro diventa competitivo nei confronti della messa in piedi di un apparato tecnico capace di svolgere le stesse mansioni degli umani. I bot (apparati algoritmici) lasciano la strada agli umani non perché incapaci di svolgere certi compiti, ma perché più costosi (nel senso che è più costoso organizzare e mettere insieme i livelli di automazione occorrenti allo scopo). Succede poi che le cosiddette intelligenze artificiali possano essere utili per sgrossare il lavoro agli umani che poi devono intervenire in ultima istanza a prendere le decisioni finali. Il controllo etico dei post in rete è, per esempio, svolto in automatico dai bot che segnalano i termini ritenuti pericolosi, ma le decisioni di oscuramento vengono prese da umani. Ma di esempi ce ne potrebbero essere infiniti. In questo stadio dello sviluppo, la conclamata Intelligenza Artificiale non è poi così intelligente, in più è diventato possibile accedere alle risorse umane a costi al di sotto dei salari di sussistenza. L’economia dei lavoretti, ma anche quella in generale delle piattaforme reintroduce infatti il cottimo, ma anche delle forme di controllo sui corpi che neanche il regime schiavista si poteva permettere. Siamo sulla soglia tra il passaggio alla piena automazione e la persistenza di lavoro umano. Lo spartiacque è il costo di un’AI autosufficiente e quello della manodopera umana.

M, l’assistente virtuale di Facebook lanciato in via sperimentale per un piccolo gruppo di consumatori era coadiuvato da tutta una serie di microlavoratori sparsi per il mondo tanto che Facebook parlava di “intelligenza artificiale animata da umani” che mettevano le parole in bocca alla macchina per farla funzionare. L’esperimento fu interrotto perché il costo della manodopera era insostenibile. Questo dimostra quanto non sia possibile ricorrere al lavoro umano quando non si riescano a trovare escamotage per non pagarlo (lavoro gratuito) o per pagarlo una miseria (redditualità al di sotto delle soglie di sussistenza).

Forse il problema non è la privacy. Le piattaforme non devono sapere tutto su di te, Al “Capitale Digitale”, la tua esistenza in quanto singolarità non interessa, ma si prende i tuoi dati insieme a quelli degli altri per alimentare gli algoritmi predittivi il cui scopo è di importi un mondo a misura di profitto. Il capitalismo della sorveglianza non è interessato alla tua persona, ma ai dati che puoi fornirgli, che poi qualcuno possa potenzialmente usare quei dati contro di te è soltanto un aspetto secondario – non meno importante – di una procedura che ha un altro scopo.

E dopo la privacy, le fake. Non di solo fake news si alimenta il web. False sono molte recensioni su Tripadvisor, su Google, su Booking.com, ecc., tanto da esserci numerosi siti che le offrono in maniera esplicita. Questo è tutto lavoro per addetti umani e non per bot, anche perché i livelli ai quali è arrivata la loro capacità di scrivere delle recensioni confrontabili con quelle degli umani, non è alla portata delle “agenzie” che forniscono il servizio. Si tratta infatti di un tipo di fornitura tra il legale e l’illegale, con una clientela i cui budget non sono quelli che occorrerebbero. C’è sì un mercato sostanzioso, fatto però spesso di piccoli commercianti, ristoratori e botteghe, disposti a spendere cifre che non permettono quella personalizzazione che l’uso dei bot richiederebbe. Anche qui macchine e umani si fanno concorrenza, ma verso il basso. L’automazione che non riesce – non vuole – ripartire la maggior ricchezza prodotta, provoca, al contrario, un impoverimento dei fornitori di manodopera facendoli diventare concorrenziali con i prodotti dell’innovazione digitale. All’epoca del Capitalismo Digitale, l’automazione non diminuisce globalmente il numero degli occupati, ma la loro remunerazione provocando un impoverimento generalizzato dei prestatori d’opera umani. Certo era una cosa che il capitalismo ha sempre provato a fare, ma che si doveva confrontare con le risposte della controparte. Il salario non poteva infatti scendere sotto la soglia che permetteva la sussistenza. Adesso, proprio per i meccanismi che ho illustrato, la flessibilità, la parcellizzazione, le esternalizzazioni spesso delocalizzanti, non permettono di poter fare questo calcolo avendo occultato sia la prestazione sia il salario dovuto. La sensazione è quella di essere un* disoccupat* al quale però manca il tempo libero e il denaro per poter campare con un minimo di decenza.

È un equilibrio instabile e in evoluzione tra automazione incompiuta e lavoro flessibilizzato asservito a questo processo. La flessibilità permette la produzione on demand, una possibilità che si è aperta con l’avvento delle tecnologie digitali, ma che dipende dalla logistica: non si spostano più grandi quantità di merci con tempi di consegna dilatati, ma piccole quantità con tempi stretti di consegna. La logistica, anch’essa “digitalizzata”, è diventata perciò per il capitale il settore nel quale è indispensabile l’abbattimento dei costi della manodopera.  La flessibilità non è quindi una dimensione che libera il lavoratore da legami reputati restrittivi, è semplicemente un modo di assecondare questa fase dello sviluppo capitalistico. Il sogno che fa della tecnica la chiave che possa portare a un’emancipazione dell’umanità dalla schiavitù del lavoro e una liberazione dalle fatiche della vita, si è trasformato in un incubo.

Continua…

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Antonio A. Casilli, Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano 2020

*Gilberto Pierazzuoli