Sul lavoro che scompare alla vista: i trucchi semantici

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Per una critica del Capitalismo Digitale – Parte XXIX

A partire dalla fine del ventesimo secolo le aziende hanno avuto la tendenza a conservare al loro interno soltanto le mansioni ad alto valore aggiunto e a esternalizzare il resto. Questo ha comportato una trasformazione con l’indebolimento della capacità di contrattazione dei sottoposti.

«La figura del lavoratore salariato, che storicamente era apparso per limitare ogni contrattazione al ribasso e sostituire i vecchi contratti di affitto della manodopera, cessa a poco a poco di costituire un punto di riferimento e lascia il campo libero ai nuovi paradigmi del lavoro atipico (freelance, precari, subfornitori)» (Casilli, p. 67).

Logica che l’avvento delle piattaforme – in primis quelle di sharing – porterà alle estreme conseguenze.

Stante così le cose, non si può più parlare di salari ma semplicemente di redditi che il nuovo proletariato riesce a mettere insieme. Le piattaforme di lavoro on demand, di sharing o di delivery, parlano di “reddito complementare”. Nel regime fordista e patriarcale il reddito familiare coincideva con il salario. Si contrattava un salario che garantisse come minimo la sussistenza di tutto il nucleo familiare, occultando così il lavoro domestico e di cura e aumentando il potere maschile sulle donne. Parlare invece di redditualità complessiva come termine della contrattazione svela sia i meccanismi sociali che quelli strettamente economici riportando all’attenzione anche quei soggetti i cui redditi non provengono da lavoro dipendente.

Redditualità che infatti si contrae anche per ampie fasce di quel ceto medio e che era di fatto sconnessa dal salario (finte partite iva e similari, ma anche piccoli commercianti). Il consuntivo di tutto questo equivale a un abbattimento generalizzato dei redditi, salari compresi e quindi anche del costo della forza lavoro a vantaggio dei profitti del capitale. Cosa che però non lo mette al riparo dalle crisi da sovrapproduzione. Detta riduzione fa infatti crollare la domanda sia di merci che di servizi. Le operazioni estrattive fatte sui beni comuni che hanno offerto al capitale un nuovo terreno di caccia, una risorsa da depredare, non allentano il problema perché il fenomeno si ripete anche in questo settore. Certo, la delocalizzazione delle produzione ha portato all’accesso il mercato di nuovi consumatori, ma la tendenza rimane la stessa. Per questo l’esplosione della finanziarizzazione del mercato, che è ormai quasi totalmente scollata dalla produzione reale e che si basa ormai quasi soltanto su transazioni algoritmiche che moltiplicano il denaro di chi ce l’ha già.

Vediamo come l’automazione digitale interviene in un ambito del lavoro cognitivo come quello della traduzione. Non c’è soltanto la traduzione di romanzi, di poesie e di saggi, che presupporrebbero delle competenze specifiche, c’è anche, per esempio, quella dei libretti di istruzione e dei tutorial per l’uso di cose semplici come un elettrodomestico per le quali non occorrono competenze specifiche. Cosa fa l’imprenditore 4.0 che lavora nel campo linguistico con anche più sedi di scuole di lingua sparse sul territorio? Affida la traduzione ai suoi studenti come se fosse un’esercitazione. Ma non è finita; raccoglie tutte le traduzioni e le usa per addestrare delle Intelligenze Artificiali. Poi sottopone le traduzioni fatte dalle macchine al pubblico chiedendole di darle un voto da 1 a 5 stelle e accanto la frase: “Proponi traduzione migliore” che è di enorme aiuto per l’istruzione dell’AI perché si avrà che uno stesso termine o lemma saranno tradotti in modi differenti a partire da un contesto differente che il ciclo delle traduzioni ha ora messo in evidenza. L’azienda potrebbe poi non essere la titolare delle scuole ma una fornitrice di servizi per le scuole di lingua pubbliche e private che pagherebbero per il servizio offerto. Servizio che se ben ricordiamo era quello di rifornire costantemente di testi da tradurre e dei feedback relativi alle traduzioni. La nostra start up non paga nessuno, ma in compenso riscuote dalle scuole, dai partner per l’addestramento degli algoritmi di traduzione, ai quali fornisce sia i dati, sia il feedback e infine dai clienti che hanno chiesto la traduzione. Forte il Capitalismo Digitale che invece di pagare un salario si fa pagare dai “lavoratori”!

Questo intrecciarsi dei limiti tra le competenze raggiunte dalle AI e il costo del lavoro umano rimanda anche a dei pregiudizi culturali, per i quali la censura proposta dalla macchina è più accettabile di quella degli umani. Qui rientra in gioco il presupposto di una oggettività della azione algoritmica e della soggettività di quella umana che diventa per questo politica. Si tratta un’altra volta di un algoritmo di Facebook. Questa volta è quello che doveva segnalare le fake news. Quando si scoprì che a operare fosse una squadra di operatori umani si gridò allo scandalo costringendo Facebook a lasciar lavorare gli algoritmi da soli. Il risultato fu disastroso. Infatti, conosciuti i parametri con i quali lavorava, fu facilmente bypassato dai troll della rete. Ecco che si fa intervenire di nuovo una forma di lavoro gratuito. La segnalazione delle fake fu demandata agli utenti stessi tramite il pulsante “segnala questo post” (lavoro occulto gratuito), Facebook subappalta poi le verifiche ad aziende esterne come la CCC (Competence Call Center) che dichiara anche “soluzioni per il monitoraggi dei social media e usa principalmente tutta quella serie di lavoratori atipici sottopagati di cui abbiamo già parlato.

Per quanto riguarda il materiale pornografico, violento, razzista, omofobo, offensivo e cose simili, se il materiale in oggetto è testuale ecco che si ripresenta la situazione di cui sopra, possono cioè operare anche i bot che ricercano per parole chiave, ma soltanto se coadiuvati da lavoratori umani per il giudizio definitivo, nel caso invece di video e foto, il contributo umano diventa indispensabile andando però a costituire una forma di lavoro realmente stressante. Ecco che, come dice Sarah T. Roberts, la moderazione commerciale dei contenuti, equivale a una specie di «smaltimento illegale dei rifiuti tecnologici», visto che il microlavoro è perlopiù delocalizzato in Asia del sud-est, con una tossicità questa volta mentale invece che fisica (ore e ore, giorno dopo giorno a guardare scene cruente o simili).

Nel film di Ken Loach “Sorry We Missed You” (ne avevamo già parlato) al protagonista viene dato un palmare sul quale gira un’applicazione che traccia i percorsi e i tempi che vengono usati per fare le consegne. L’applicazione diventa così uno strumento efficace e tenace nel controllare il suo comportamento sino a quegli eccessi che riescono a far sbottare anche lo spettatore suscitandone la rabbia verso il potere coercitivo di quello strumento. Si potrebbe pensare che un’applicazione così sofisticata fosse alla portata di poche aziende, in realtà è un’applicazione a disposizione sul libero mercato. Si chiama “Xora”. In questo video potete vedere come funziona. Il Capitalismo Digitale è così riuscito a mettere il braccialetto del detenuto ai dipendenti delle aziende. Questo dimostra come attraverso le continue sollecitazioni si eserciti una forma di sorveglianza che si trasforma in una valutazione dei comportamenti che la macchina macina per continuare il suo lavoro di profilazione, controllo e indirizzo. La macchina capitalista è uno strumento di coercizione e assoggettamento sofisticato che ha piegato alla sua causa le cosiddette conquiste della scienza contemporanea. Le piattaforme non sviluppano questi sistemi soltanto per l’uso interno, ma li commercializzano mettendoli così a disposizione di altre aziende. Ecco così, per il tripudio della sorveglianza, i social network aziendali: Yammer della Microsoft, Workplace di Facebook, e G Suite di Google. Ma anche quelli di aziende non appartenenti ai colossi della IT: Betterworks, 7Geese, Engagedly, StaffCircle. Questa è una descrizione di 7Geese: «7Geese è un moderno strumento di gestione della performance per le organizzazioni che si allontanano dalla tradizionale gestione basata su comando e controllo e consente loro di collaborare con il proprio personale, facendo leva sullo spirito umano». Se nella fabbrica tradizionale il controllo automatico si esauriva nel timbrare il cartellino, adesso si ricorre al tracciamento automatico e pressoché esaustivo dell’attività dei lavoratori, costringendo il lavoratore stesso a partecipare al proprio controllo e a quello dei suoi colleghi.

Anche in questo caso il business non si esaurisce nella fornitura dello strumento di sorveglianza ma prosegue con la raccolta dei dati utili sia per affinare il software della piattaforma sia per essere rivenduti. Si opera infatti una quantificazione delle prestazioni lavorative che è di fondamentale importanza per essere maneggiato dagli algoritmi.

Perversioni semantiche. La pervasività del controllo che rimanda al capitalismo della sorveglianza, mette al lavoro gli utenti demandandogli il compito della segnalazione di post o interventi reputati scorretti. La delazione diviene allora “sorveglianza partecipativa”. Ci sono poi quelle forme di lavoro che come abbiamo visto vengono invisibilizzate e per le quali si può parlare di “volontariato obbligatorio” o di “servitù volontaria” mettendo in campo una pletora di ossimori come se si trattasse di un gioco di società. Ma i giochi linguistici non sono finiti. Ecco i termini di servizio, codicilli di più pagine con caratteri grigio chiaro su sfondo bianco, in corpo sei dove se ne dà ampio sfoggio. Oppure nei contratti di collaborazione tra Uber Eats (piattaforma per la consegna del cibo a domicilio) e i ristoranti nei quali, per esempio i rider sono “collaboratori indipendenti” e che la società è un «fornitore di servizi tecnologici [che] non assicura nessun servizio di consegna o di logistica» (tradotto da qui – fig. 1). Dove cioè si dichiara di non essere quelli che si è.

fig 1

L’oggetto tecnico è nell’immaginario collettivo un prodotto del lavoro delle macchine, nessuno infatti penserebbe di vedere un’etichetta con la dicitura “fatto a mano” sull’ultimo modello di smartphone in vendita. Ma le mani invisibili, non del mercato, ma di lavoratori sottopagati, e spesso avvelenati, lo hanno sicuramente toccato. I lavoratori cinesi rifiniscono i telefoni cancellando le impronte digitali con un solvente (benzene n-esano) che è, per di più, tossico. Questo dà la misura di quanto sia importante per il consumatore credere che il proprio dispositivo sia stato assemblato dalle magie della tecnica moderna piuttosto che dalle dita di una lavoratrice adolescente cinese che ha lasciato le zone rurali per lavorare nelle fabbriche dove si producono la maggior parte di questi dispositivi anche per tutti i marchi occidentali.

Anche l’inno alla flessibilità e alla libera scelta da parte dei lavoratori alla fin fine (ma anche subito) si dimostra un falso. La quantificazione relativa alle performance e alla efficienza dei prestatori d’opera delle piattaforme equivale spesso alla reputazione degli stessi. La reputazione è un valore (non soltanto nel senso eufemistico del termine) che il lavoratore si è costruito nel tempo e, spesso per salvaguardare quel valore, il lavoratore ha dovuto accettare incarichi o remunerazioni sgradite. Il problema che allora si manifesta è che cambiare piattaforma significa spesso azzerare le conquiste fatte, è questa una strategia di lock-in voluta dalle piattaforme per le quali di flessibile c’è soltanto l’uso da fare della forza della forza lavoro. È infatti una strategia che lega il lavoratore a quella piattaforma e ne limita la libertà di scelta. È vero che c’è stata per questo una regolamentazione che ha raccomandato la possibilità della portabilità dei dati, ma questi sono spesso incompatibili con la nuova struttura impedendo di fatto al lavoratore la possibilità di cambiare la piattaforma di impiego.

Dentro il passaggio verso la piena automazione, verso forme di Intelligenza Artificiale pari o superiori a quella umana, che coadiuvano gli umani nel perseguire il progresso, schiere sempre più numerose degli stessi sono impiegate in lavori sottopagati per il raggiungimento di questa meta. Ma sempre più voci ipotizzano che la meta sia utopistica. Siamo così di fronte a una involuzione dell’orizzonte emancipativo del proletariato proprio perché il possibile obiettivo non gli è comprensibile. A compimento di questa fase, infatti, la sorte di questi lavoratori, stante così le cose, sarebbe la loro sostituzione da parte delle macchine con la conseguente disoccupazione che porterebbe alla mancanza di qualsiasi forma di reddito. Non soltanto il neo-proletariato non emanciperebbe se stesso, ma avvierebbe il progresso verso una strada ostile all’umanità. Lo sviluppo della macchina digitale totale, svela e richiama allora l’indispensabilità di forme di redditività sganciate dal lavoro, questo indipendentemente dal fatto di aver raggiunto o meno la piena automazione, se non vogliamo vivere in una prospettiva per la quale la gran parte dell’umanità sarebbe a rischio per la propria sopravvivenza.

Continua…

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Antonio A. Casilli, Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano 2020

*Gilberto Pierazzuoli

 

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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