Non sono un luddista… o forse sì! (prima parte)

  • Tempo di lettura:11minuti
image_pdfimage_print

*Per un’ecologia anticapitalista del digitale – parte #10.1

Il luddismo fu un vero e proprio movimento insurrezionale, oltre a essere antesignano dei sindacati. Interessante notare che nell’unica incisione che raffigura Ned Ludd datata 1812, il Generale sia interamente travestito da donna. Forse oltre che luddisti siamo sempre stati anche queer. (Sadie Plant, introduzione a Zero Uno)

Una forma di rapporto negativa con la macchina non è da attribuire soltanto alle cosiddette forme ingenue di rivolta come quelle attribuite ai luddisti, ma sono ampiamente documentate da tutta la critica al capitalismo come modo di produzione. Critiche che vanno da Marx agli esponenti del “socialismo utopistico” come William Morris:

Vengono chiamate macchine “salva lavoro”. Un termine d’uso comune che implica ciò che ci aspettiamo da queste macchine. Eppure, non otteniamo mai ciò che ci aspettiamo. Quello che fanno invece è ridurre i lavoratori specializzati a lavoratori comuni; accrescere le file dell’ “esercito di riserva del lavoro” – ossia aumentare la precarietà della vita dei lavoratori – e intensificare il lavoro di chi è posto al servizio delle macchine (come schiavi verso i propri padroni).

Sì, perché gran parte del racconto dell’avventura luddista è letta con il senno di poi, per il quale si tratterrebbe di lotte spontaneiste che precedono l’organizzazione sindacale e lo sciopero che sarebbero invece il buon modo di comportarsi e di opporre una qualche forma di contrasto nei confronti del capitale. Ma non serve l’analisi logica per capire che la forma industriale e capitalistica della produzione non era concepita come un modo di produrre ricchezza e abbondanza, ma soltanto profitto. Il bisogno di “spremere profitto” (ivi, p. 302) dagli operai avrebbe sussunto il sapere artigiano in vista di una produzione di beni scadenti da rivendere a quella stessa manodopera. Le cose non sono cambiate molto, tantoché, anche per il modo di produzione del capitalismo digitale, i prodotti offerti sono, come abbiamo visto, più spesso a misura di profitto che non a misura umana. Così il luddismo percepiva sulla propria pelle le conseguenze dell’utilizzo delle macchine nella produzione manifatturiera. Il luddismo infatti non esplicita il carattere di un processo produttivo ma quello di un modo di contrastarlo. E la distruzione, la rivolta, non è un’azione reattiva ma nasce da una consapevolezza che poteva anche essere percepita soltanto di pelle ma che nello stesso tempo apriva a una visione lucida delle condizioni lavorative future. Non si trattava semplicemente di concorrenza tra la macchina e l’operaiə, si trattava invece di un’espropriazione della visione produttiva operaia che era l’unica che aveva una coscienza prospettica del fine di ogni gesto produttivo e sicuramente molto di più di ogni genere di manager.

Ma la lungimiranza luddista fu ancora più acuta. Le prime macchine non influenzarono soltanto il lavoro in fabbrica ma anche quello della filatura e della tessitura domestica al quale fecero una forma di concorrenza pesante. Non soltanto l’operaiə si trovò a dover sopportare ritmi sempre più intensi imposti dalla macchina, ma si trovò a perdere prima la propria qualifica e subito dopo si trovò a competere al ribasso con un esercito sempre più esteso di lavoratorə che le trebbiatrici e altre macchine avevano espulso dall’agricoltura e dalla terra riconvertita spesso all’allevamento e non più concessa in lavorazione ai piccoli fittavoli.

In questa prima fase difficilmente si potrebbe parlare di legami sociali che potessero fare riferimento al lavoro in fabbrica. Nello stesso tempo la cultura di base rimaneva contadina. Parlare allora di coscienza di classe sa di forzatura preveggente. Ma la percezione di essere vittima di ingiustizie, lo spettro della fame o quello di punizioni esemplari in arrivo per debiti non pagati, era perfettamente cosciente. A tutto questo potevano aggiungersi i guai provenienti dal sovvertimento delle dinamiche sociali in seguito alla messa al lavoro fuori casa delle donne che in certi settori, sia per convincimenti che riproducevano stereotipi di genere, sia perché – anche qui a partire da quegli stessi pregiudizi e gerarchie – potevano essere pagate meno. La sensazione non poteva essere che quella di subire un’ingiustizia ma, nello stesso tempo, di essere completamente impotente. Incapace di reagire a questa nuova condizione anche perché non c’era nessuna autorità alla quale rivolgersi per vedere riconosciuta una qualche forma di diritto. Hobsbawm suggerisce così che sia stato proprio attraverso la distruzione dei macchinari che i luddisti si siano costituiti come classe creando, attraverso questo comportamento, legami di solidarietà. La rivolta in qualche modo precedeva la presa di coscienza. “Gli attacchi organizzati ai macchinari delle fabbriche e la loro distruzione non erano parte di una strategia isolata – erano invece la trama stessa della resistenza, la fibra che univa i tessitori come classe. Era una pratica di solidarietà.” Aggiunge Mueller (Mueller, p. 25)

Ma non si tratta di una contrapposizione tra rivolta e sciopero sindacale, dove lo sciopero avrebbe una provenienza socialista mentre la rivolta verrebbe dall’anarchismo. Una lettura cioè che vede i moti di protesta delle origini come forme improvvisate ed istintive, bisognose quindi di un’organizzazione che ne guidasse i modi. La cosa è in realtà molto più complessa. Siamo al passaggio da una cultura di tipo contadino a quella della modernità industrializzata con piani di riferimento legalitari inesistenti. I legami sociali stessi non erano di classe, erano immersi in reti di relazioni dove si suppliva con strumenti consuetudinari alla mancanza di regole calate dall’alto o anche contro quelle stesse regole nel momento in cui esse non corrispondessero alle aspettative del gruppo sociale, innervato da credenze e pregiudizi precipui. In casa vigeva la legge patriarcale, fuori si subiva la meteoropatia della natura e quella dei padroni terrieri. La condizione umana corrispondeva alla proiezione di una cosmologia complessa frutto di un processo di creazione sul quale aveva messo mano un demiurgo polarizzato in due figure contrastanti ora angeliche ora demoniche (il demone tentatore). La condizione umana era figlia allora di un processo che si snoda a partire da una cacciata, da un allontanamento da un eden da allora rimasto agognato. Questo spiegava la fatica, la difficoltà di provvedere in termini semplici alla propria sussistenza, acutizzata nei momenti di passaggio quando le coordinate per cartografare il mondo si facevano sempre più labili. Le pratiche rituali e la calendarizzazione dell’esistenza supplivano alla mancanza di certezze. La comunità aveva una fondazione mitica che aveva il compito di tenere in ordine l’immagine di un mondo minacciato dal caos. I riti carnevaleschi dove le maschere accoglievano i numi tutelari, i fondatori della stirpe, per pacificarli e rinsaldare l’ordine sociale, battevano il tempo. La festa era allora l’interruzione di quella condanna che permeava di sé la condizione umana. Ma non si trattava soltanto di un’evocazione, di una nostalgia, la festa aveva caratteri performativi. Agiva sul reale. L’antropologia basa molti dei suoi lavori sul fatto che l’umanità abbia paura di tutto ciò che gli appare “anomalo” rispetto a quello che considera uscire dalla sua normale concezione del mondo, e cerca di evitarlo. Uno dei risultati di questa paura è il tentativo di schematizzare l’universo secondo un disegno logico, secondo modelli che riescano a spiegare il caos percepito mettendo a fuoco una conoscenza del mondo secondo criteri sia razionali sia magici. Questo, però, non è in contraddizione all’accettazione del modello caotico fino a qui discusso perché i due fenomeni (paura dell’anomalo e accettazione del caos) avvengono su due piani diversi.

Il chiarivari era un modo organizzato per far fronte all’anomalo, un modo per stigmatizzarlo. Per assurdo, era un modo per legalizzare una forma di linciaggio con varie gradazioni di esiti: dalla semplice esecrazione pubblica, al bando vero e proprio, con distruzione totale e parziale dell’abitazione. Una delle fasi rituali consisteva spesso nella scoperchiatura del tetto e/o nella distruzione dei serramenti. Il chiarivari agiva in parallelo alla giustizia ufficiale quasi fosse uno strumento di adeguamento etico alla morale condivisa dal gruppo sociale. Si stigmatizzavano principalmente gli adulteri, i matrimoni dei vedovi e delle vedove, questioni che non erano in sé criminali ma che esercitavano una concorrenza fuori canone alle possibilità di maritarsi dei giovani nelle cui congreghe si organizzavano e si gestivano i chiarivari stessi. Si potrebbe dire che il rito era un modo per mettere al bando le anomalie. Per restituire alla convivenza il suo valore di comunità. Il chiarivari non era una festa, era l’azione stigmatica del bandire che invece si affievoliva nella finzione carnevalesca nel semplice “deprecare” certi comportamenti. Il chiarivari organizzava la disapprovazione, portando alla luce il chiacchiericcio delle comari e il risentimento di parte della comunità. Il modo basico di esprimersi del chiarivari era il corteo rumoroso che esprimeva sotto la casa delle sue vittime il biasimo del paese. Era un corteo colorato nel quale erano presenti molti dei caratteri del corteo carnevalesco dal quale attingeva quella componente immaginativa di una giustizia e di un mondo che non corrispondeva a quello reale. Se il mondo era ingiusto, se il reale era difficile da sopportare, se l’allontanamento edenico aveva condannato gli umani a una condizione infelice, il carnevale, il mondo alla rovescia, era invece la rappresentazione di una mondanità svincolata dalle catene dell’oppressione e da quelle precipue della condizione umana. Un misto tra proiezione utopica e rivendicazioni materiali. Se il mondo così com’è o così come ti viene imposto, è un mondo ingiusto, il sovvertimento diventa auspicabile. Il “mondo alla rovescia” fa infatti anch’esso parte dei paesi della cuccagna. Le componenti del carnevale pur essendo le più variegate prendono però questi connotati di giustizia a partire da un fondo comune che è il disagio esistenziale subito da una parte o da tutta la comunità. Spesso rispecchia le tensioni e le contraddizioni che la contraddistinguono. C’è allora, per esempio, come una discrepanza tra la serietà delle relazioni tra i sessi e la rappresentazione carnevalesca dove il linguaggio si fa esplicito, volutamente osceno. Una sessualità incanalata in comportamenti che non esaurisce le pulsioni umane, ne chiama una fuori dai canoni. Ecco i travestimenti e la confusione tra i generi. Il carnevale, in fondo, era strutturalmente queer, il che darebbe fondamento alla provocazione di Sadie Plant in esergo. Ecco che il carnevale apriva lo spazio nel quale, attraverso i ludi agonistici (giostre, cacce, duelli), si utilizzava l’agone come succedaneo alla guerra, in questo caso ai conflitti e alle tensioni sociali accumulate nell’anno.

Il chiarivari non è il carnevale, ma usa gli strumenti espressivi del carnevale. Se il carnevale aveva una componete etico fobica, il chiarivari è invece uno strumento moraleggiante. Fa giustizia negli ambiti dove la giustizia ufficiale non arriva. Ma ad essere dentro a un corteo chiarivarico si provano le stesse sensazioni di quelle di un corteo carnevalesco perché c’è una giustizia imposta che non ti fa giustizia e, in entrambi i casi, in entrambe le manifestazioni, quello che uno stava facendo era la ricerca di qualcosa che si percepiva come giusto. E ci si organizzava per farlo. La spontaneità non era istintiva, era voluta.

Il gesto luddista è allora una forma di chiarivari. È un pretendere giustizia. La violenza, la distruzione della macchina sono atti euforici che riportano la giustizia nel mondo. È il modo naturale attraverso il quale si percepiva allora la ricerca della giustizia. “In Inghilterra le testimonianze evocano casi di travestimento durante i disordini luddisti. Le rivolte imitano il carnevale: i luddisti che rompono le macchine a volte si vestono da donna. Nel febbraio 1812 diversi lavoratori dello Yorkshire vestiti da donna distrussero delle machine tosatrici. Ad aprile due tessitori travestiti da ‘mogli del generale Ludd’ guidano diverse centinaia di uomini a Stockport”, dice Francois Jarrige (traduzione mia). “Questa pratica del travestimento può derivare anche dalla tradizione del chiarivari, questo metodo di protestare e punire coloro che violano le norme comunitarie” Dice Thompson (pp. 285-312). Questa pratica, prosegue Jarrige: “si riferisce anche alla ricerca di protezione e rassicurazione di una cultura del lavoro di genere in crisi poiché la meccanizzazione minaccia le identità dei lavoratori”.

E la spiegazione del travestimento che assimila la protesta luddista a un chiarivari si capisce ancora meglio se facciamo una distinzione tra camuffamenti e mascheramenti in quanto, in quest’ultimi si tende a trasformare l’identità in un’altra. I mascheramenti luddisti non erano allora dei semplici camuffamenti per sfuggire alla repressione ma l’emersione di personaggi “potenti” (una potenza magico simbolica) capaci di rimettere a posto le cose. “Le manifestazioni luddiste non ubbidivano a un criterio spontaneistico, erano strutturate e i mascheramenti testimoniano questa loro indole”, dice Lombardi Satriani. Non c’è nessuna ingenuità, nessuno spontaneismo se non quello che porta al bisogno di rivolta. È nella rivolta, così come nel carnevale o nello chiarivari, che si consolidano i legami sociali e non a partire da forme di coscienza esperite precedentemente.

_____________________________________________

-Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, Not Nero, Roma 2021
-Thompson Edward P., 1972, “Rough Music”: le charivari anglais, Annales. Économies, Sociétés, Civilisations, 27e année, n° 2
-L. M. Lombardi Satriani – M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo: l’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Milano           1982,  pp. 45 sgg.
-Morris W., News from Nowhere and Other Writings, Penguin (1890) 1994, p.305. (Nel 1872 era uscito il romanzo distopico di Samuel   Buttler: Erewhon – anagramma di Nowhere – che racconta di un paese dove sono state proibite le macchine).

___________________________________________

(*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale”, libro di prossima stampa uscito a puntate proprio su questo spazio. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti.
Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link.

Qui la prima parte, Qui la seconda. Primo intermezzo, Secondo intermezzo, Qui la terza, Qui la quarta, Qui la quinta, Qui la sestaQui la 7.1Qui la 7.2Qui la 8.1 Qui la 8.2, Qui la 9

 

The following two tabs change content below.

Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

Ultimi post di Gilberto Pierazzuoli (vedi tutti)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *